Lo smart working è oramai uno dei protagonisti di questa era Covid. Prima dell’emergenza sanitaria era praticamente sconosciuto in Italia alla maggior parte dei lavoratori. Oggetto di studi e sperimentazioni negli ultimi mesi, durante il lockdown ha permesso alle imprese di continuare l’attività e ai dipendenti di mantenere il proprio impiego. Ma ora che l’emergenza sembra rientrare, la domanda è d’obbligo: che ne sarà di lui? Mentre politica e mondo del lavoro si interrogano su questa esperienza e sull’opportunità di mantenerla, l’Inapp – l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche – ha elaborato una ricerca al riguardo.
Lo studio dell’INAPP: più che smart working è stata delocalizzazione
Nel dibattito sul futuro del lavoro che anima oggi la nostra società, si inserisce a pieno titolo la ricerca condotta dall’Inapp Gli effetti indesiderabili dello smart working sulla disuguaglianza dei redditi in Italia.
Lo studio ha impiegato una banca dati unica, creata dall’unione di due indagini. Si tratta dell’Indagine PLUS (Participation, Labour, Unemployment, Survey) con un bacino di 45.000 individui in età lavorativa (18-74 anni) e l’Indagine Campionaria sulle Professioni (ICP) che raggruppa le 800 occupazioni italiane.
Come precisa Sebastiano Fadda, presidente dell’Istituto, quello attuato fino ad oggi nel nostro Paese non può essere definito tecnicamente smart working. Si tratterebbe di una “delocalizzazione” dell’attività normalmente svolta sul posto di lavoro: «Smart work significa lavoro “intelligente” – sostiene Fadda – ma diventa “intelligente” se si traduce in un modo nuovo di gestire i processi produttivi».
Le sperequazioni innescate dallo smart working
La ricerca, come suggerisce il titolo stesso, ha evidenziato quelli che si presentano – al momento – come gli effetti “indesiderabili” dello smart working. Una situazione che, da un lato, consente a chi già aveva un reddito alto di continuare a lavorare e, dall’altro, sospende i lavori nei quali non può essere impiegato. In tal modo, accentua ancora di più le disuguaglianze tra generi e categorie lavorative.
Analizzando i dati, poi, si scopre un ulteriore aggravio delle differenze tra generi e categorie di lavoratori. La maggiore attitudine a lavorare da remoto è più frequente nelle donne, nei lavoratori adulti e sposati, con un alto livello di istruzione, con contratto indeterminati e full-time. Inoltre, hanno una maggiore “Attitudine allo Smart Working (ASW)” coloro «che vivono in nuclei familiari poco numerosi e senza minori, in aree metropolitane e nelle province che hanno riportato un minor contagio Covid-19».
Lo smart working tende ad essere più frequente in alcuni settori come Finanza e Assicurazioni, Informazione e Comunicazione e Pubblica Amministrazione. Altri fattori di diseguaglianza sono il titolo di studio (sono avvantaggiati i laureati), il genere (gli uomini più delle donne) e l’età.
Le diseguaglianze dovute all’età: meno soldi per gli over 50
Secondo l’Inapp, «se aumentassero le attività lavorative con alta propensione verso lo smart work si determinerebbe un aumento del salario medio lordo di circa € 2.600 annui». Tuttavia questo incremento non sarebbe omogeneo, ma varierebbe con l’età. Infatti, l’aumento di lavoro agile avrebbe un effetto stabile e positivo nei dipendenti tra i 25 e i 35 anni. Al contrario, i lavoratori over 50 anni, pur avendo un alto indice ASW (oltre il 50%), ne resterebbero penalizzati. Almeno in una prima fase. Solo successivamente, con l’avvicinarsi dell’età pensionistica, si avvantaggerebbero di un potenziamento nella produttività e, conseguentemente, nei premi.
Servono politiche di sostegno al reddito e formazione
L’analisi vuole fornire nuovi elementi a chi ha il compito di elaborare strategie nel mercato del lavoro, evitando un’iniqua distribuzione dei redditi. Sebbene lo smart working rappresenti al momento la strategia vincente per una ripresa economica, gli aspetti evidenziati andrebbero tenuti in considerazione. Per evitare l’insorgere di sperequazioni tra lavoratori, saranno necessarie politiche di sostegno al reddito per le fasce più deboli, accompagnate dalla diffusione delle nuove tecnologie e da un’adeguata formazione. Tutto ciò per tutelare i lavoratori più vulnerabili. L’obiettivo finale, raccomanda Inapp, deve essere quello di rendere il lavoro da remoto un’opportunità per tutti e non una scelta per pochi.
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