Giovanni Silonio.
Dopo la maturità classica ha frequentato la facoltà di lettere all’università di Torino. Ha lavorato presso la Asl di Vercelli e ora è in pensione. Ha pubblicato un libro di poesie dal titolo “In cammino” nel 1992, ultimato il secondo dal titolo “Appunti di viaggio” e ha appena concluso l’elaborazione di “Appunti di viaggio . Parte seconda”. Ha frequentato un corso di scrittura creativa all’Unipop di Vercelli. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni: nel 2012 e 2014 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la poesia, nel 2013 e 2014 la Menzione speciale della giuria per la prosa, nel 2015 ha vinto la Farfalla d’oro per la poesia, nel 2016 ha ricevuto la Segnalazione della giuria sempre per la poesia; nel 2019 ha vinto la Farfalla d’oro per la prosa; nel 2020 la Libellula d’oro per la prosa e la Menzione speciale della giuria per la fotografia. Vive a Vercelli.
Distanti circa 80-90 metri tra loro, non si conoscono, non si sono mai incontrati, né visti. Uno è alto un metro e settantasei, ha i capelli biondi e arruffati, la barba incolta e lunga, e gli occhi azzurri. Nella tasca della giubba tiene piegato un foglietto bianco: è una lettera che scriverà appena avrà smesso di piovere.
L’altro è più alto di quattro centimetri, uno e ottanta, più magro, e ha un viso affilato con occhi taglienti e profondi, e la mascella volitiva tipica di chi ha elevate responsabilità.
Quello biondo con gli occhi azzurri è italiano, deve scrivere una lettera di auguri ai suoi genitori e alla morosa.
L’altro ragazzone, quello dagli occhi taglienti è americano di Seattle. Non deve scrivere a nessuno, però spesso deve rispondere al telefono. Le chiamate arrivano dal Comando centrale, dai generali, proprio come sta per accadere. Non è cattivo, ma da come serra la mascella e digrigna i denti, un po’ di paura potrebbe incuterla. I due da tre mesi, stanno a ottanta metri di distanza l’uno dall’altro, guardano nella direzione l’uno dell’altro. E con loro centinaia di ragazzi al loro fianco. Com’è possibile? E’ possibile perché stanno dentro a un buco, anzi due buchi, differenti e paralleli, distanti in linea d’aria circa 80 metri. Quei due buchi si chiamano trincee. Sono corridoi profondi due metri, scavati nella terra e nel fango della Garfagnana da loro stessi, prima di entrarci. Uno picchietta il termometro con l’unghia, ma non si muove: un grado sottozero, non male. E’ un inferno, si gela e questi poveri dannati che lo vivono sono vivi, e vivi vorrebbero rimanere, perché sono tutti marcantoni di 19-20 anni, 21 i più vecchi. Il problema è che sono soldati, e questo complica un poco le cose. Non c’è da girarci intorno: siamo nel dicembre del 1944, in piena seconda guerra mondiale. Ogni tanto qualcuno s’affaccia sull’orlo della trincea, poggia i gomiti larghi sull’argine, s’acquatta e spara un caricatore verso l’altra trincea.
Ci sono anche due reparti di brasiliani con gli americani, buontemponi e simpatici, che sovente cantano in coro arie delle loro contrade. Gli italiani sono inferiori come numero agli avversari, un insieme di pezzi di plotoni sbandati e riunificati delle Divisioni Italia e Monterosa, comandati dal sergente Marco Serio, il ragazzo dagli occhi azzurri.
Da 90 giorni stanno tenendo la posizione, anche se male armati ed equipaggiati.
L’americano, quello dal viso affilato, sente suonare il telefono, appoggiato su un sacco a mo’ di tavolino, e va a rispondere perché lui è il tenente e le telefonate sono tutte per lui. “Pronto – dice stringendo la cornetta – certo Generale, totalmente d’accordo Generale, ricevuto”. Il Generale gli ha appena comunicato che ha dato l’ordine a due apparecchi dell’aviazione di bombardare la trincea nemica. Il Generale gli ha detto che scateneranno l’inferno, faranno un massacro degli italiani e li uccideranno tutti. L’operazione è prevista verso l’imbrunire del pomeriggio successivo, bisogna restare al riparo nella propria trincea. A questo punto, stringendo ancor più la mascella, quasi a farsi esplodere i denti, il tenente Liam Harwey dice una cosa che un tenente non può permettersi di dire a un generale: “Generale…- gli suda la fronte pur nel gelo – … Generale, il piano è perfetto, ma domani…domani è Natale…”.
“E allora – risponde il Generale – non vi abbiamo mandato le decorazioni per la trincea?”. In effetti gliele avevano mandate. “E’ la guerra tenente – prosegue il Generale – e la guerra è guerra oggi, domani, il giorno del suo compleanno, a Capodanno, in estate e in inverno. Domani faremo saltare la resistenza degli italiani. Ha qualcosa da aggiungere?”. Liam avrebbe voluto aggiungere che aveva vent’anni, come quasi tutti i suoi commilitoni, e che la vigilia di Natale, di solito, non riceveva telefonate di questo genere, che la vigilia di Natale è una festa di attesa, ma di un evento salvifico universale, che le pareva tutto assurdo, al di sopra di ogni possibile idea di guerra. Ma non fece in tempo, il Generale riattaccò. E’ la vigilia di Natale! C’è qualcuno che grida. Il tenente Harwey si gira lento: la telefonata gli ha congelato l’anima, e vede uno dei brasiliani che strepita. Si mette le mani a cono davanti alla bocca e grida: “Ehi! Che stai facendo? Sei matto, gli italiani ti impallineranno come un tiro a segno”. Il soldato non gli da retta, si arrampica sulla trincea e urla, ha già le braccia e le spalle fuori, ma gli italiani non sparano. “Ehi, vuoi farti ammazzare? Torna giù”. “Noje noite è bela”, comincia ad intonare il brasiliano, canto natalizio della sua terra. Poi si gira verso il tenente: “ Va bene la guerra, capo, ma è pur sempre Natale!!!”, ed è una voce così sottile e dolce, che nella trincea di fronte, quella degli italiani, cade un silenzio che nessuno saprebbe spiegare. E nessuno spara, Liam non sa cosa pensare. Il sudamericano è uscito completamente dal suo buco, in piedi nel fango, e continua a cantare. Il biondo sergente italiano smette di pensare alla sua lettera e sbotta: “Ma cosa pensa di fare quello lì? Crede di essere bravo? Facciamogli sentire noi a quell’americano di merda come si canta il Natale”. E allora rispondono in coro: “Jingle bells, Jingle bells”, tutti gli italiani dalla loro trincea. Cantano tutti, siciliani, piemontesi, toscani, veneti, pugliesi ecc… “Jingle bells, Jingle bells…”; escono tutti dalla trincea e cominciano a camminare sul confine, nella zona franca, nella terra di nessuno… gli americani e i brasiliani saltano anche loro fuori dalla trincea come burattini a molla, uno accanto all’altro. Appoggiano i fucili, escono disarmati, come del resto hanno fatto gli italiani. Non piove più, ma nevischia, appena appena. Il sergente italiano, che non sa che l’indomani verranno massacrati, s’abbassa, raccoglie qualcosa da terra, prende la mira, e poi lancia il pacco regalo contro i nemici che cantano ancora. Gli americani, come lo vedono volare, si buttano a terra, cercano di ripararsi, sono terrorizzati perché sanno cos’è. E’ una granata, una bomba, è una bella fregatura! Ci mettono un po’ a capire che quella è una palla, una palla fatta di stracci, che sta rimbalzando innocua. Si alzano e tirano un sospiro di sollievo. Gli italiani sono piegati in due dalle risate “Che cretini sti “Yankees”, credevano fosse una bomba”. Come cambia tutto all’improvviso quando tra due gruppi di maschi di vent’anni salta fuori un pallone, anche se sono nemici. Di colpo si formano le squadre. Americani e brasiliani contro italiani. Il campo è la zona franca tra le trincee, e come pali delle porte: due giubbe arrotolate. Vincono gli italiani per 4 a 3. Il cannoniere di giornata con tre goals è il piemontese Emilio, chiamato “Emiliao” dai compagni per irridere i brasiliani, Marco Serio che teneva il computo, sta finalmente scrivendo la lettera, raccontando che quello è il Natale più toccante della sua vita. Terminata la partita, i soldati si fanno gli auguri, si stringono le mani, si scambiano le sigarette, vanno a dormire. “Ci vediamo domani per la rivincita”, dice il sergente italiano. L’unico che non ha cantato, che non ha giocato, che non dice nulla è Liam. Stringe le mascella e guarda nell’infinito, in alto.
Ha smesso di piovere e nevicare, tutto sembra quieto e rilassato. Il sole sta per immergersi nella sua dimora notturna dopo il lavoro quotidiano, colorando l’orizzonte di rosso-arancio. E’ Natale! Il tardo pomeriggio di un Natale fuori del comune.
Il silenzio si rompe di colpo e il cielo si riempie del ronzio delle eliche: sono i due caccia americani, immensi calabroni. Stanno arrivando! Planano e si dirigono in picchiata giù, verso la terra, verso la trincea e il fango, verso il buco dove stanno gli italiani,. E allora… giù, sganciano i doni natalizi, ma i doni sono bombe. E le bombe cadono, fischiano, esplodono. Chili e chili di bombe vengono scaricate a terra. E si alzano onde di fango, e schizzi e detriti e zolle. Poi i caccia risalgono, volano via, hanno fatto ciò che dovevano fare. Tornano in alto perché è in alto che bisogna vedere la scena: la trincea nemica distrutta e la loro, quella americana, con i connazionali tutti lì, vivi, in piedi, spalla a spalla, al riparo.
Quello che gli aerei non scorgono dall’alto, nel grigiore dell’imbrunire, sono i colori delle divise dei soldati.. perché nella trincea americana ci sono sia i soldati brasiliani e statunitensi, ma anche gli italiani, un po’ in piedi, un po’ accosciati, che cantano piano, con un pallone di pezza sotto ad un braccio, mentre i bombardieri s’allontanano ignari. Perché, alla fine, poco prima del calar del sole, ha cantato quello che conosceva la strofa più brutta: “Venite, venite da noi. Continuiamo a cantare insieme”. Si capiva che non era cattivo, era solo la mascella serrata a dargliene l’aria.
L’episodio non passò inosservato agli occhi dei rispettivi comandi militari.
Al tenente americano e al sergente italiano, durante gli interrogatori, i superiori chiesero: “Ma chi vi credete di essere?” e quelli risposero nell’unico modo possibile, come se si fossero messi d’accordo: “Uomini, crediamo di essere uomini”.
Nota: la canzone brasiliana “Noje noite è bela” è l’equivalente di “Jingle bells” inglese.