Giovanni Silonio. Dopo la maturità classica ha frequentato la facoltà di lettere all’università di Torino. Ha lavorato presso la Asl di Vercelli e ora è in pensione. Ha pubblicato un libro di poesie dal titolo “In cammino” nel 1992, ultimato il secondo dal titolo “Appunti di viaggio” e ha appena concluso l’elaborazione di “Appunti di viaggio. Parte seconda”. Ha frequentato un corso di scrittura creativa all’Unipop di Vercelli. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni: nel 2012 e 2014 ha ricevuto la Menzione speciale della giuria per la poesia, nel 2013 e 2014 la Menzione speciale della giuria per la prosa, nel 2015 ha vinto la Farfalla d’oro per la poesia, nel 2016 ha ricevuto la Segnalazione della giuria sempre per la poesia; nel 2019 ha vinto la Farfalla d’oro per la prosa; nel 2020 la Libellula d’oro per la prosa e la Menzione speciale della giuria per la fotografia e nel 2022 ha ricevuto la Segnalazione speciale per la prosa.
Paolo Testa era un giovanotto di 26 anni, laureato in Lettere moderne da un anno, con molti interessi ed hobbies quali lo scrivere poesie, suonare la fisarmonica e dedicarsi all’attività di radioamatore.
I suoi genitori gestivano una tabaccheria sul corso principale di Rivoli e lui dava una mano in negozio nell’attesa di riuscire ad avere una cattedra da professore di Storia e filosofia presso un liceo della zona.
Quel pomeriggio era entrato in corrispondenza radioamatoriale con una gentile signorina di Torino e si erano messi a parlare di tanti argomenti, fra cui la letteratura. “Quale scrittore preferisce signor Testa”, interrogava la donna. E lui, di rimando: “Su tutti Leopardi e per quanto riguarda i contemporanei Ungaretti e Saba, e lei?”. “A me piace Dino Campana, forse perché anch’io sono un po’ matta come lui, e sono una inguaribile irrazionale”. “Chi ama la poesia non può che essere un passionale, perché i versi non vanno capiti, ma devono essere intuiti e sentiti con l’istinto e il cuore”. Partendo da questi presupposti si fece strada un’amicizia robusta e ininterrotta. Non passava giorno che uno dei due non chiamasse l’altro. Paolo, timido e maldestro al cospetto delle persone, diventava spavaldo e disinvolto a distanza. La nuova amica si chiamava Monica Voci, di origine toscana, lavorava alle Poste di Torino e suo padre era un capitano dell’esercito. Un giorno si fece ancor più audace e azzardò: “Se posso permettermi, la sua età?”. “Che indelicatezza!”. “Suvvia signorina, siamo ormai in rapporto amichevole”. “E sia, 24 anni, è soddisfatto?”. Il neolaureato non era ancora appagato e rilanciò: “Piccola, alta?”. “Piuttosto alta”. “Sottile?”. “Sottile”. “Bionda, bruna?”. “Bionda”. “E gli occhi?”. “Chiari”. “E la pelle?”. “Bianca”. “Dev’essere bella, molto bella, e le mani?”. “Questo lo tengo per me, mi parli invece un po’ di lei”. “Ho compiuto 26 anni il mese scorso, ho i capelli a spazzola, fra il biondo e il castano, sono in attesa di un posto fisso da professore di liceo, vengo spesso a Torino e non manco mai a qualche buon spettacolo teatrale. Leggo molto e affronto la vita come un’avventura in cui bisogna lasciare molte impronte, soprattutto attraverso la figliolanza e l’arte, per attingere una sorta d’immortalità. Fine”. Così, da un mese, l’intimità fra i due era cresciuta, con quel linguaggio che aboliva ogni timidità in Paolo, ogni reticenza in Monica. Decise di recarsi a Torino. Conosceva il suo recapito e sapeva che usciva di casa alle otto e mezza per andare in ufficio. Un giorno, quindi, raggiunse la capitale piemontese in treno e si appostò sul marciapiede opposto a quello su cui s’affacciava la residenza dell’amica, con il cuore che sobbalzava forte. Uscì dal portone incriminato un facchino con un baule, poi un gatto bianco e guardingo… poi… si udì un vociare gaio, uno scroscio di risa, giù per le scale. Comparve una signora piccola e rossiccia, seguita da un’altra bionda e bellissima: era Monica. Le seguì a distanza e fu rapito dalla bellezza e leggiadria della dama bionda. Quando la folla si fece più densa, s’avvicinò, passò loro accanto udendo la voce di quella rossiccia che diceva: “Siamo intese, stasera all’Operetta al Carignano”. Si perse tra la folla e loro scomparvero. Peregrinò tutto il giorno, ma alla sera non mancò a teatro e le attese. Entrò finalmente Monica, biondissima, bellissima, divina. in abito da sera, seguita dall’amica rossiccia. Le luci si spensero e iniziò lo spettacolo. All’uscita le perse di vista. Rimase a Torino per altri due giorni meditando il da farsi, ma non venne a capo di nulla. Tornò quindi a Rivoli. Il ricetrasmettitore si animò presto e dall’altro capo una voce si fece avanti: “Buongiorno, caro amico, ben tornato, che ne è stato di lei in questi tre giorni?”. “Sono stato a Torino per vederla ed ammirarla, in tutto il suo splendore”. “Bugia!”. “Le giuro, l’ho accompagnata da casa sua fino all’ufficio postale, e poi, la sera, l’ho rivista a teatro, all’Operetta”. “Che matto, ma perché”. “Perché da un mese sono innamorato di lei e devo confessarle che l’amo perdutamente”. Dall’altra parte più nulla, nemmeno un respiro, silenzio assoluto. Andò avanti così per dieci giorni e la cosa esasperò a tal punto Paolo, che decise di scrivere una lettera al padre della signorina, una formale richiesta di fidanzamento, come si usava in quei tempi, con l’audacia risoluta dei timidi. Giunse la risposta: una carta da visita dove il Capitano Voci e figlia, pregavano il Dr. Testa a voler favorire da loro nel pomeriggio della domenica successiva. Paolo vide le pareti della stanza turbinare vertiginosamente e il suo cuore, attinse, per alcuni secondi, uno stato irraggiungibile sulla terra: la felicità. Il tempo volò e, il giorno stabilito, si recò in casa Voci e venne introdotto in una sala dove il timido eroe non udì altro che il battito del proprio cuore. Apparve il capitano, baffuto, calvo, di media statura, gioviale. “Fortunato, fortunatissimo, prego, ecco mia figlia”. Sulla soglia si presentò l’amica piccola, rossiccia, s’avanzò con un sorriso gioioso, tese la mano a Paolo. “Caro collega radioamatore, ci possiamo fissare in volto, finalmente”. Paolo non cadde perché era appoggiato ad una poltrona. Il suo cervello s’illuminò della verità improvvisa, spaventosa. Non era lei! Non era Monica Voci, la divina bellezza bionda, ammirata per la strada e al Carignano! Monica Voci era costei, una nanerottola rossa, come una volpe. E aveva avuto il coraggio di proclamarsi alta e bionda! Il capitano invitò il Dr. Testa a cena. “Non dica di no”, aggiunse Monica, la vera Monica. “Le presenterò anche l’amica mia più cara, quella che ha visto con me per la strada e a teatro. Abita al piano di sopra. L’avverto, è un po’ sorda e un po’ balbuziente, ma è tanto buona!”. A tavola Monica parlò molto. Parlava vivace come un fringuello, con quel dolce accento toscano che fa dimenticare il senso delle parole per seguirne solo la melodia. Non era brutta, aveva un profilo da maschietto, una bocca fresca, i capelli rossi, corti, ed un personale con tutte le cose al posto giusto nel modo giusto. Paolo cominciava a trovarla molto, ma molto simpatica, quasi bella. E poi aveva le sue stesse idee, i suoi stessi interessi, la poesia, la musica (suonava il pianoforte) e discuteva di filosofia come un professore di scuola superiore. Se ne innamorò, sempre di più. Dopo sei mesi, si sposarono e generarono quattro figli, due con i capelli rossi e due biondo-castani. La natura e la vita sanno essere equanimi.