Giovanni Signorino.
Appassionato della scrittura ha partecipato a diversi concorsi nazionali ottenendo lusinghieri riconoscimenti. Partecipa al Concorso 50&Più dal 2015. Vive a Novara.
Serata elegante, grandi tavoli rotondi da otto posti per la cena del Club. Ho scelto un tavolo dove so di avere vicino persone con le quali mi sarebbe facile discorrere senza cadere in facezie o rischiare argomenti nei quali mi sarebbe difficile rapportarmi. Si, è vero, parlo poco, ma in compenso ascolto molto. Mi piace scoprire da chi ne sa più di me di cinema, letteratura e attualità politica. Ci sono tutti, e il brusio in attesa degli antipasti si fa sentire: anche al mio tavolo parlano tutti fra loro, io cerco di imbucarmi fra i miei vicini ma il brusio non mi permette di capire bene il senso del discorso. Tento di intervenire nella discussione, ma ho poco successo. Mi sento come prigioniero in una campana di vetro smerigliato, isolato e sordo. Brusio e ombre, sono solo con i miei pensieri: mi sento diverso, in un isolamento provocato da me stesso. D’altronde parecchi argomenti non mi va neanche di affrontarli, per divagare e affondare nel banale… gossip su Chiara Ferragni bellissima ma con i piedi brutti, il campionato e il calcio mercato con Ronaldo che per me è solo un ottimo sponsor di mutande…. Alla mia destra il posto è rimasto vuoto, alla mia sinistra una signora piena di collane e bracciali pesanti mi strapazza le orecchie con la sua voce da trombone, chiacchierando animatamente con la sua amica di fronte. Più in là gli altri convitati si accaniscono a citare, per dimostrare quanto ne sappiano di più, attori e registi di film degli anni 50… Quando sono solo, non mi sento così solo come in questo contesto. La solitudine pare che sia sempre con me.
Toh, alla mia destra sento una presenza: una signora si è seduta nel posto lasciato vuoto, non mi sono accorto del suo arrivo. Mi guarda, e io la guardo, interessato. Capelli biondi ben curati, viso liscio con qualche piccola ruga a lato degli occhi e della bocca evidenziata da un rossetto leggero, pendenti corti alle orecchie e collana semplice in accordo con gli orecchini, abito bianco creme con un foulard rosso sulle spalle a coprire il decolletè. L’ho già vista questa bella signora, ma non ricordo dove e quando. Lei continua a guardarmi, sembra che aspetti che le dica qualcosa, tanto per rompere il ghiaccio.
“Buona sera, signora… Lei è una persona che non passa inosservata, ma sa che non mi ricordo dove ci siamo visti?”.
Mi sorride, stringendo gli occhi, facendomi sentire un po’ stupido per l’approccio forse maldestro.
“No, non ci siamo mai visti, anche se siamo stati sempre nello stesso ambiente! Non ci crederà, ma siamo stati spesso più vicini di quanto sembri”.
Mi sono sentito ancora più stupido, ma ora anche curioso: cosa vuole dire?
“Vedo che ho vellicato la sua curiosità, ma non si preoccupi di guardare nei cassettini della memoria: le ripeto, non ci siamo mai visti”.
Strano, queste battute di discorso son state recepite in modo chiaro, il brusio dell’ambiente non c’è più: è come trovarsi, io e lei, in una piccola stanza tappezzata dall’immagine cinematografica dei commensali seduti ai tavoli, isolata dal mondo circostante. Cosa mi stava succedendo?
“Le sembrerò sfacciata, ma lei più di una volta mi ha apprezzato, è stato bene con me, senza rendersene conto. Io sono semplicemente la sua Solitudine. Lei mi sente, vive con me, sta bene e non soffre, non mi sopporta. Un caso raro. Facendo compagnia a sé stesso, sta con me: sono la buona solitudine”.
Mi viene quasi voglia di scherzarci sopra, mi sembra una cosa ridicola…
“Ma allora esiste una solitudine buona e una cattiva?” – sbotto sorridendo con ironia.
“No. La solitudine è una sola. Ciò che mi fa apparire buona o cattiva è il rapporto che tu hai con me”.
Mi sento quasi preso in giro, sembra che si nasconda dietro a paradossi filosofici. Lei è qui ed ora, la vedo, la sento parlare… ma sto al suo gioco.
“Insomma, di norma lei è sempre sana e benefica, ma se io ho non ho con lei un buon rapporto diventa malvagia”.
“Non è proprio così. Non sono io che divento malvagia. Funziono esattamente come un amplificatore: se tu ti ami, amplifico il tuo benessere. Se tu ti odi, purtroppo amplificherò il tuo dolore”.
“Allora uno che non si ama, che non si accetta e non accetta i propri errori dovrebbe reagire in qualche modo!”.
“Non risolverebbe nulla. Anche se si circondasse di compagnia continuerebbe a sentirsi dolorosamente solo”.
Già, ha ragione. Il mondo è pieno di esempi: quello che si attacca alla bottiglia o al fumo che stordisce, quello che a sue spese si circonda di compagnie allegre, quello che si affida a ideali illusori, al gioco d’azzardo, ai maghi e alle streghe…
“Tu sei un caso particolare, ed è per questo che ho voluto dialogare con te, ho voluto farmi vedere per specchiarti dentro i miei occhi. Ti do del tu perché mi sembra giusto per coloro che sono sempre stati così intimi… Anche tu mi vedi come una visione gradevole e auspicabile alla tua mente, in questi istanti un cui sei attorniato da figure poco accattivanti, vecchie signore ariose e compagni datati, vero?”.
“Vedo che mi conosci molto bene…”.
“Tu fuggi. Una volta ti aiutava il tuo lavoro: quando progettavi vedevi nella tua mente il meccanismo in funzione, lo sognavi ad occhi aperti. Ora la fuga si compie con i sogni. Per sognare ti chiudi e voli via, non ci sei”.
“Sto sbagliando a comportarmi così? La mia reazione mi pare la più giusta e meno dolorosa, non ti pare?”.
Stavo reagendo, mi stavo mettendo in difesa giustificando il mio comportamento di fronte a una critica che andava nel mio profondo. In pratica ha parlato di uno stato di dolore dal quale io fuggo per un mondo reale che non accetto. Ora voglio sapere di più.
“Hai un’alternativa?”.
“Accogliere il proprio dolore, nutrirsene come di un alimento benefico”.
“Non è un po’ masochista questo atteggiamento?”.
“C’è una netta differenza. Il masochista vuole mantenersi nel dolore per farsi compatire e sfuggire alle proprie responsabilità: per lui il dolore è un fine. La persona autoconsapevole accoglie il proprio dolore sapendo che esso è un mezzo, e che terminerà una volta che avrà esaurito il suo compito”.
“Il suo compito? Ma quale è il suo compito?”.
“Bene… Quando ti fa male una gamba, immediatamente pensi: “la mia gamba ha qualcosa che non va. Occorre prendere provvedimenti”. Il dolore psichico ha la stessa funzione: ti avverte che c’è qualcosa da fare per poter stare meglio”.
Faccio fatica a comprendere cosa vuole dirmi, non so dove voglia andare a parare. Mi viene voglia di cambiare discorso. Mi sembra però anche qui una fuga: voglio avere chiaro il suo obiettivo, anche se mi infastidisce un po’. Mi deve dire di più, devo continuare a domandare.
“Ok. Ma concretamente?”.
“Concretamente, quando il dolore arriva, innanzitutto gli dici “grazie”. L’espressione di gratitudine è sempre il primo passo per instaurare un dialogo”.
“Dire grazie al dolore? Continua a sembrarmi masochistico!”.
“Tu continui a confondere due cose molto diverse. Facciamo un esempio: se un amico ti critica per un errore, tu puoi avere tre differenti reazioni. La prima è arrabbiarti con lui. In questo caso, sei come colui che respinge il dolore anziché accoglierlo in sé: lo ricacci indietro, fingendo di non sentirlo. In questo modo egli continuerà a rosicchiarti come un tarlo, fino a ridurti l’anima come un colabrodo. La seconda reazione è quella masochistica: ti lasci aggredire e usi le critiche per alimentare l’odio verso te stesso. Dici: anche gli amici mi criticano, quindi sono proprio uno schifo, merito di star male. Questa è la via sicura verso la depressione. Infine, c’è la terza reazione: dire “grazie”. Ringraziando l’amico che ti ha criticato, accogli in te la sua critica, ne fai tesoro, la usi come un mezzo per migliorarti e per essere più felice. Ringraziare il proprio dolore è appunto questo: accoglierlo come un amico che ti sta aiutando a migliorarti”.
“Mi dici allora che dovrei desiderare il dolore?”.
“No, no! Voglio dire solo che quando viene non devi respingerlo, ma dialogare con lui. Dialogando, ottieni due vantaggi: gli impedisci di impadronirsi di te, mettendo subito in chiaro che tu non sei il tuo dolore, siete due cose diverse. Inoltre, lo volgi a tuo favore, usandolo come un telescopio che ti permette di esplorare parti profonde del tuo universo interiore, che ancora non avevi mai osservato”.
“Ma una volta che l’ho accolto e ci ho dialogato, devo tenermelo addosso? Non posso più mandarlo via?.
“Non avrai nessun bisogno di mandarlo via. Se ne andrà da solo, quando avrà esaurito il suo compito”.
“E se invece non se ne va?”.
“Se non se ne va vuol dire che non è dolore sano, ma dolore nevrotico: quello che produci tu stesso per farti del male. Rientra nella fattispecie del masochismo”.
“Già! Ma come faccio a capire se è un dolore sano o nevrotico?”.
“Te lo faccio capire io. Esisto appunto per questo”.
“Cioè? Basta starmene in solitudine per capirlo?”.
“Basta chiamarmi in aiuto. Io provvederò a fare silenzio dentro di te, affinché tu possa ascoltarti. In tal modo capirai subito se il tuo dolore è disposto a dialogare, e questo è il dolore sano, oppure rifiuta qualunque trattativa e vuole impadronirsi di te, e questo è il dolore nevrotico”.
“E se sono vittima di un dolore nevrotico, come me ne libero?”.
“Innanzitutto, riconoscendolo come tale senza finzioni. Poi, chiedendo aiuto”.
“Alla Solitudine?”
“Non solo a me. Non posso fare tutto da sola. Chiederai aiuto alle tue parti sagge, che abitano le stanze più segrete della tua coscienza, e contemporaneamente chiederai aiuto all’esterno. Dire con umiltà a un amico, a una persona che sai che ti vuole bene: “ho bisogno di te, per favore offrimi il tuo ascolto”. Ciò farà un gran bene non solo a te, ma anche a lui”.
“E se amici, persone che sono certo che mi vogliano bene, non ne ho?”.
“Nella tua vita hai incontrato tante persone che ti stimavano, che ti ammiravano e alcune erano addirittura innamorate di te, ma tu non sei stato capace di vederle”.
“Sembra quasi una difesa, ma non me ne sono accorto o ero diffidente. A volte mettersi nudi senza timore di essere giudicato o deriso è difficile e rischioso”.
“Persone che hanno dimostrato di amarti ci sono. Qualcuno che possa aiutarti c’è sempre. Sarò io stessa a suggerirti un nome, se mi interpellerai”.
“Ho ancora tanti altri dubbi”.
“Sono a tua disposizione per chiarirli, ma prima ti consiglio di assimilare quanto ci siamo detti oggi”.
Sento sfiorarmi la spalla sinistra. Il cameriere sta servendo gli antipasti, mi volto per favorirgli il passaggio del piatto. Sento ora il brusio della sala, mi accorgo della bottiglia di ottimo Recioto e allungo la mano per prenderla e versarne due dita nel calice della mia interlocutrice, ma lei non c’è più.
Il posto è vuoto.
Non è andata via, è solo rientrata in me.