La scrittura, nei secoli esercizio riservato a piccole enclave di religiosi, ristrette élite di aristocratici studiosi e altre minoranze, è finalmente diventata pratica di massa.
Oggi tutti scrivono. Scriviamo tutti.
Non si tratta di una magicamente democratica distribuzione del talento letterario o della sensibilità poetica, si tratta dell’affermazione massiccia delle pagine Facebook, delle amicizie virtuali fra estranei, a distanza siderale gli uni dagli altri.
Tweet, chat, blog, sms, whatsapp e via singhiozzando parolette straniere: è un’orgia di scrittura.
Dei 35 milioni di titolari di connessione internet (il dato è di una decina d’anni fa), una percentuale elevatissima frequenta i social network, scrivendo. Sono prosette d’occasione, inviti, insulti, ciance, sentite didascalie a commento dell’immancabile gattino, autopromozioni di qualsiasi opera dell’ingegno (eventualmente del tutto priva di ingegno), si tratta di scemenze sciolte, di dichiarazioni apodittiche, di comizi in absentia (di piazza, di popolo, di seguito) oppure di auguri di compleanno senza senso (“Fai sentire a Maria Tizietta che è nei tuoi pensieri”). Non discuto della qualità delle opere, bensì della loro quantità: sono milioni.
E della loro forma: sono parole scritte.
È “parola scritta” anche l’urlo inarticolato dell’“hater” di turno (bizzarra questa nuova figura professionale: l’addetto all’odio, il disprezzatore delle opinioni altrui), sono “parola scritta” le balle spaziali spacciate per informazione e le vibrate proteste elevate per inficiarle.
Si scrive invece di telefonare, ci si scrive invece di incontrarsi, ci si scrive per accoppiarsi e per lasciarsi, ci si scrive per partecipare ad un lutto e per ingraziarsi un potente, ci si scrive per sembrare migliori di quello che si è e per smascherare chi cerca di sembrare migliore di quello che è.
Insomma, si scrive con leggerezza e senza pensare, perché si scrive credendo di parlare.
Volano i “verba”, deresponsabilizzando il loro autore, ma permangono a futura memoria, perché sono “scripta” e questa è la loro funzione.
È la funzione dei romanzi, dei saggi, dei poemi, quella di permanere nel tempo.
La parola letteraria è frutto della ricerca ostinata di una sfumatura di senso, di un suono, di uno di quei cortocircuiti che accendono di poesia una pagina.
Ci si passa ore, giorni, mesi, anni, a organizzare frasi degne di restare.
Chiunque abbia qualche famigliarità con la letteratura, anche soltanto da lettore, lo sa.
E la funzione della letteratura è questa: alzare la voce, la voce umana, consentirle di soverchiare il brusio delle parole volanti, quelle senza peso che quotidianamente ci scambiamo.
Questo accesso democraticissimo al pulpito della scrittura, cambierà qualcosa nel minacciato mondo della letteratura? E nella politica? E nell’informazione? E nelle relazioni fra noi?
Si tratta di comunicazioni brevi, è questo il codice del parlato-scritto.
Diventerà l’unica forma accettata? E questa forma influirà sui contenuti, sul pensiero? Impareremo a pensare breve?
Prima di questa rivoluzione (o involuzione?) se portavi a termine un testo scritto, dovevi, per essere pubblicato, convincere un editore della validità del tuo lavoro.
Dovevi sottoporti a giudizio, per far uscire le tue memorie dal cassetto e proporle a tutto il mondo.
Adesso che tutti scrivono e ciascuno è editore di se stesso che cosa si rischia? Di morire soffocati dall’ego degli altri. O di morire di noia.
E veniamo a noi, io, voi, i Grandi Adulti. Noi che siamo cresciuti con il telefono appeso alla parete della cucina che ti costringeva a restare a casa se volevi sentire il tuo ragazzo, il tuo collega, la tua amica. Noi che non potevamo guardare in faccia gli interlocutori telefonici, altro che zoom e webinar. Noi che pagavamo care salate le interurbane e non avremmo mai potuto giocare alle Barbie in videochiamata FaceTime fra Roma e Bryan, in Texas, come facciamo io e la mia nipotina seienne per due ore, tutti i sabati e le domeniche. Non era pensabile, ci sarebbe costato un milione di vecchie lire. Quando lavoravo negli Stati Uniti e mio figlio bambino stava con i nonni, me lo ricordo come un incubo il quarto di dollaro che cadeva implacabile ogni secondo nella feritoia del telefono a gettone. Ricordo che per dirgli “mi manchi tesoro” dovevo averne una saccoccia piena, di quarti di dollaro. Noi che lavoravamo con la macchina da scrivere, pigiando sui tasti e se dovevamo tagliare e incollare ci toccava prendere forbici e colla, oggetti, mica icone da cliccare. Noi che dovevamo spedire le lettere infilandole nell’apposita buca, comprando il francobollo e aspettando settimane una risposta… noi, ragazzi e ragazze del secolo scorso, come le viviamo le conquiste della tecnologia. Ci siamo abituati? Le diamo per scontate? O abbiamo nostalgia per il mondo di prima, quando non c’era Google e non potevi consultare freneticamente questo oracolo contemporaneo, e toccava leggere libri interi per avere una risposta, dove adesso basta impostare una domanda sul telefonino?
Raccontatemi qual è il vostro rapporto con tutta questa facilità, questi automatismi post moderni, questi mezzi inimmaginabili soltanto una quarantina di anni fa. Aspetto le vostre lettere.
Lidia Ravera è nata a Torino. Giornalista, sceneggiatrice e scrittrice, ha pubblicato trenta opere di narrativa tra cui “Porci con le ali” (Bompiani 1976), “Sorelle” (Rizzoli 1994), “L’eterna ragazza” (Rizzoli 2006), “La guerra dei figli” (Garzanti 2009) e “A Stromboli” (Laterza 2010). Gli ultimi romanzi “Piangi pure”, “Gli scaduti”, “Il terzo tempo”, “Avanti, parla” sono nel catalogo Bompiani. Ha lavorato per il cinema, il teatro e la televisione.
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