A dirlo a 50&Più è il professor Leo Nahon, specialista in Psichiatria e già direttore S.C. Psichiatria dell’Ospedale Niguarda che, assieme al collega, professor Marco Trabucchi, ha curato il capitolo “L’anziano e le sue fragilità nel tempo del progresso tecnologico” nel libro “Ipotesi per il futuro degli anziani. Tecnologie per l’autonomia, la salute e le connessioni sociali”.
È con lui che abbiamo voluto affrontare il tema del rapporto tra anziani e tecnologia: nuova via a una crescente forma di tutela e benessere ma anche trappola, se male utilizzata o se troppo complessa nella sua gestione.
Professor Nahon, perché avete deciso di confrontarvi con questo argomento?
Perché ci sembrava imprescindibile muoverci secondo due vettori che sono in grande aumento: il numero degli anziani e la moltiplicazione della tecnologia. La tecnologia intesa sia come singola diffusione dei devices sia come innovazione.
Come si possono aiutare gli anziani a padroneggiare la tecnologia in maniera adeguata?
È un tema di alfabetizzazione tecnologica. Prima di tutto, degli utenti – cioè degli anziani -, e poi, in caso sanitario, del personale atto all’utilizzo. Il tema dell’alfabetizzazione tecnologica degli anziani va affrontato in un duplice modo: da un lato, già oggi, molte tecnologie hanno al loro interno le istruzioni d’uso che spesso, però, non si palesano bene e che dunque bisogna siano rese più accessibili. Inoltre, molto più di frequente, è utile e formativo l’intervento di un operatore sanitario o no, dedicato a questo. Possiamo poi anche dire che esistono delle varianti antropologiche interessantissime, che sono i nipoti che insegnano ai nonni a usare il personal computer, come anche la lavatrice con i display elettronici o la domotica. Nel caso, però, della tecnologia applicata alla salute degli anziani, deve esserci un elemento umano che faccia da cerniera.
Ci sono strumenti culturali e politici per imprimere un simile cambio di passo? Al momento, parte della popolazione in età matura fatica a districarsi con i devices.
È un problema di mutamento culturale. Probabilmente, se l’atteggiamento culturale nei confronti dell’alfabetizzazione tecnologica degli anziani cominciasse a essere ritenuto prioritario, anche l’aspetto economico e l’aspetto formativo ne gioverebbero. Ma prima di tutto, bisogna che, sin dalla progettazione della tecnologia, si tenga conto di una possibile variabilità di utilizzo per persone ipoformate, come sono gli anziani, alla tecnologia di oggi e di domani.
Proviamo a fare degli esempi concreti.
Bisognerebbe pensare oggi a piccoli corsi di applicazione all’utilizzo della tecnologia. Un esempio su tutti, la biomedicina fruita dagli anziani: in sostanza, come far imparare a un anziano a vestire un device che monitorizzi il suo battito cardiaco, la sua pressione, la sua glicemia. Oggi, abbiamo degli strumenti che, grossomodo, con la complicità di un saturimetro, ci possono dare molti parametri. Naturalmente, bisogna che qualcuno si dedichi a insegnare all’anziano come rendersi autonomo. Questo è complicato quando vi siano soggetti con deficit cognitivi, come spesso accade con gli anziani perché, fisiologicamente, con l’età, l’attenzione cala, la memoria cala, le abilità psicomotorie calano. Proprio per questo la tecnologia, che dovrebbe essere una protesi a tutti questi cali, non può trasformarsi in un limite.
Tanto più che il numero dei medici di base è in costante calo mentre le persone che hanno necessità di cure – con l’aumento della longevità – cresce. Ci sarà dunque necessariamente un rapporto sempre più tecnologico con il proprio medico curante?
Corretto. Non solo andiamo verso una condizione in cui c’è un paziente umano e un caregiver tecnologico, ma l’entità di questa differenza tra umano e tecnologico rischia di diventare eccessiva con l’aumento della sofisticazione delle tecnologie. Sostanzialmente, la relazione di cura rischia di trasformarsi in una relazione di sorveglianza a distanza e quindi di disumanizzarsi, malgrado punti a un obiettivo di prevenzione.
In ambito sanitario, la tecnologia quali vantaggi offre?
La cosa interessante è che le tecnologie, proprio per la loro velocità, hanno degli eccellenti indici di capacità preventiva. Però il rischio è che se tutto viene delegato all’hardware e al software, l’uomo scompaia. L’uomo nel senso della figura del curante: che sia il curante medico, che sia il curante infermieristico, che sia il curante badante.
C’è da considerare anche – come 50&Più ha ricordato in una recente inchiesta – , che il lavoro delle badanti, che è prezioso e gravoso, è in una fase assai delicata: il rischio è che, in assenza di adeguate tutele, questi lavoratori – spesso stranieri e donne – possano abbandonare il nostro Paese per tornare a casa. Loro non potranno mai essere sostituite da intelligenze artificiali.
Il caregiver può essere aiutato e aumentato nelle sue capacità da alcuni strumenti tecnologici possibilmente semplici. Tipo allarmi di caduta o alcuni di quelli che si usano già nella telemedicina, però non è possibile pensare a una sostituzione totale di tipo robotico.
Come si interviene sul tema del rapporto tra nuove tecnologie e medici di base?
La prima cosa – ahimé – è trovare più medici di famiglia che sono sempre più in carenza perché, già adesso, la loro presenza deve essere parcellizzata tra un numero sempre maggiore di utenti che hanno sempre maggiori esigenze. Una volta risolto il problema del numero sempre più esiguo, vanno formati a un uso della tecnologia flessibile e non troppo delegante. Naturalmente la medicina ha sempre saputo superare questi ostacoli perché sempre, con l’introduzione di nuove tecnologie, il timore era “deleghiamo tutto alla macchina”. Un po’ è successo, ma la medicina ha sempre trovato il modo di far sì che l’elemento dell’intelligenza umana avesse il sopravvento sull’intelligenza artificiale.
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