Non più solo luoghi di esposizione, i musei hanno cambiato da qualche tempo la loro missione: mettere il visitatore al centro dell’esperienza artistica. E si moltipilcano nuovi strumenti di marketing, come YouTube e TikTok.
Nicolas Bourriaud, già direttore dell’École nationale supérieure des Beaux Arts di Parigi, affermava in una recente intervista: «L’opera d’arte è come la sporcizia: non è mai al posto giusto», teorizzando che, nell’attuale era dell’antropocene, «non può esserci osservazione senza partecipazione» e bisogna riarticolare il dialogo tra soggetti e oggetti «per porsi come laboratorio in cui l’ideologia viene messa in discussione». Sono questi i punti di riferimento da cui bisognerebbe partire per dare una nuova “vita” ai musei, dopo lo tsunami del lockdown, alla ricerca di un equilibrio tra educazione, intrattenimento, sostenibilità economica, impatto sociale e territoriale.
Dopo gli storici mutamenti dettati dalla riproducibilità tecnica dell’opera d’arte – il celebre saggio di Walter Benjamin del 1936 ne ufficializzò la “perdita dell’aura” – e dalla “performing art”, che spostò negli Anni ’60, il baricentro del gesto artistico dall’oggetto all’azione, il processo di fruizione dell’arte da parte del pubblico è in continuo mutamento. E proprio il pubblico, i visitatori, sono il punto di attenzione di chi è chiamato a dirigere e a gestire le strutture che dell’arte non possono più essere solo custodi: i musei.
La ricercatrice Deborah Agostino, recentemente impegnata in un progetto teso a individuare come possano creare valore per il territorio, afferma :«I musei, negli ultimi anni, hanno cambiato significativamente la loro mission, trasformandosi da musei che mettono al centro della propria attività la tutela della collezione in musei che mettono al centro il visitatore/utente: questo implica identificare i propri utenti, ascoltarli, definire un’offerta in grado di educarli/intrattenerli». L’edutainment del pubblico è prospetticamente determinante. Se oggi i musei attraggono soprattutto una platea femminile, di nazionalità italiana, di età media e che dedica loro circa tre uscite all’anno, la sfida è attrarre il cosiddetto “pubblico scettico”, da chi non ha mai neppure sentito parlare del museo a chi preferisce occupare il tempo libero con lo sport, gli amici, in casa, a chi, pur interessato al consumo culturale, non sceglie i musei oppure non ritiene utile visitarli una seconda volta.
Se da un lato non bisogna minimamente demonizzare la pura contemplazione estetica delle opere – che è già, come ricordava Bourriaud, “partecipazione” a un universo di segnali, insegnamenti, memoria -, è ormai indispensabile produrre una programmazione, e anche un percorso di attraversamento e visione, che sappia educare, intrattenere, coinvolgere. Programmazione che ha il compito di confrontarsi e di integrarsi con quelle di altre istituzioni culturali, pubbliche e private, presenti nella zona, in particolare con chi organizza esposizioni e mostre in maniera spesso continuativa. Se allargare l’utenza in maniera sinergica rischia di produrre un’eccessiva mercificazione dell’arte, significa solo che si è sbagliato qualcosa nella proposta. Dovremmo invece assistere a una contemporanea e innovativa continuazione della formidabile intuizione illuministica secondo la quale l’arte può essere per tutti, da cui sono nate le gallerie pubbliche e private, di raccolta e libera visione.
«Il museo che verrà dovrà essere sempre di più un’intelligenza viva, attenta a quello che succede fuori, pronta a recepire e raccontare i cambiamenti. Ripensare un museo vuol dire interrogarsi su come produrre cultura». Così diceva Giovanna Melandri, presidente della Fondazione MAXXI, ai festeggiamenti per il decennale dell’istituzione romana. E dettava anche una ricetta: «Fare ricerca, coltivare incontri culturali, rinforzare la sezione educativa e didattica»; e ancora: «cucire rapporti con il territorio, farsi interprete di bisogni reali». Il museo come teatro della realtà, in cui le opere esposte non sono semplici simulacri (né, per quel che riguarda le mostre organizzate all’interno delle strutture, semplici oggetti di un viavai frenetico da un continente all’altro), bensì strumenti sensibili per capire il presente, siano esse capolavori del passato oppure realizzazioni contemporanee.
Nella nostre città i musei sono chiamati ad assumere un sempre maggiore ruolo sociale, arrivando a coinvolgere le periferie e persino le realtà carcerarie, anche con iniziative di arte pubblica che li portano a superare i loro stessi confini fisici. Devono produrre un impatto sociale che, se pure non quantificabile come le ricadute economiche dettate dal “turismo culturale”, li renda soggetti attivi nelle politiche territoriali. La provocatoria sporcizia di Bourriaud indica, oltre alla sinergia tra natura e cultura come fine (di uno) dei dualismi che hanno strutturato il pensiero occidentale, la capacità di estrarre segni da un territorio e la continua ricerca di uno spazio “giusto” in quello stesso habitat dove collocarli.
Attività questa che richiede un nuovo utilizzo e nuove specializzazioni del personale, che non dovrà più limitare le proprie attività lavorative a vigilanza, sorveglianza e segreteria. Le relazioni con il territorio (per i musei maggiori anche tramite la delocalizzazione di opere in piccole realtà locali), così come il “fundraising” e il marketing per un ampliamento delle possibilità economiche e la visibilità online, dovranno essere potenziate e sostenute da specialisti ad hoc, non solo dai direttori come è avvenuto per la massima parte finora.
“Uno dei luoghi che danno l’idea più elevata dell’uomo”, secondo la celebre definizione di André Malraux, lo scrittore che da ministro della Cultura permise l’esposizione della Gioconda al Metropolitan di New York, avrà sempre maggior bisogno di visibilità. Non basterà essere set di film come Il codice da Vinci o The Dreamers, di video musicali come Apeshit di Beyoncé e Jay-Z (nonostante le 267 milioni di visualizzazioni), di storie dei vari influencer, sarà indispensabile affacciarsi in maniera determinante nella rete, sfruttando le opportunità offerte dal web, dai social e dalle piattaforme.
Le modalità sono numerosissime, partendo dalla creazione di app dedicate. Dalla semplice, indispensabile digitalizzazione della collezione e dalla creazione di percorsi tematici, su periodi storici oppure artisti, alla programmazione di interventi di approfondimento sulle opere, che potrebbero diventare podcast scaricabili o addirittura veri e propri canali YouTube. Ancora, la realizzazione di show culturali radiofonici e visuali, di ricostruzioni storiche grazie alla realtà aumentata, di viaggi immersivi, di giochi intelligenti, di collaborazioni-confronto con altre realtà museali, fino alle incursioni sui social più frequentati dai giovanissimi, come TikTok o il cinese Douyn. E fino ai Mooc (acronimo di massive open online courses), corsi accademici gratuiti e accessibili.
Ricordando sempre che è l’offline reale – magari con il suo patrimonio riallestito e con i depositi e gli archivi valorizzati – a essere la fonte di quanto immesso in rete. Internet è ancora mezzo di informazione di qualcosa che si trova al di fuori di Internet. Almeno finché i musei non dovranno confrontarsi con l’avvento degli Nft, le opere “not-fungible token” di realizzazione digitale conservate in banche dati collocate nelle cloud di conservazione dei file. Ma questa sarà un’altra storia…
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