Settanta anni fa, con la conquista della seconda cima più alta del mondo, l’Italia del Dopoguerra sbalordisce il mondo ed entra nella storia.
Salire in vetta al K2, la seconda montagna al mondo dopo l’Everest, è ancora oggi un’impresa eroica, come dimostrano le recenti vicissitudini della spedizione italo-pakistana K2-70. Diverse spedizioni – a partire dal 1902 – avevano tentato di conquistare i suoi 8.611 metri d’altezza, arrendendosi per le tempeste di neve e i percorsi troppo ripidi. Molti alpinisti avevano perso la vita nel tentativo, ma il 31 luglio del 1954 la spedizione guidata dal geologo Ardito Desio (classe 1897) riesce là dove persino gli americani un anno prima avevano fallito, entrando nella storia.
La montagna degli italiani
Il K2, il cui nome significa seconda vetta del Karakorum, si trova in un luogo inospitale e remoto, soggetto a frequenti e imprevedibili tempeste di neve. Dopo la guerra i Paesi rivaleggiano per conquistare – con le montagne – anche prestigio e notorietà. Nel 1953 erano state raggiunte le cime dell’Everest e del Nanga Parbat, così il governo De Gasperi accetta di finanziare la spedizione. Il 20 aprile del 1954 Desio e altri alpinisti, tra cui Achille Compagnoni, Lino Lacedelli e il ventiquattrenne Walter Bonatti, partono per il Pakistan, non senza aver affrontato difficoltà organizzative, tecniche ed economiche. La spedizione fin da subito smuove un forte orgoglio nazionale sull’onda dell’entusiasmo della ricostruzione post-bellica (uscì anche un film girato da uno dei protagonisti), ma la conquista sarà adombrata dai veleni che seguirono.
Una spedizione leggendaria
Gli alpinisti incontrano forti ostacoli nel corso della salita. Uno di loro, Mario Puchoz, guida alpina valdostana, muore presto di polmonite. Seguendo la via chiamata Sperone Abruzzi – scoperta nel 1909 dalla spedizione di Luigi Amedeo di Savoia – il 31 luglio alle 18.00 finalmente Compagnoni e Lacedelli conquistano la vetta a 8.611 m e piantano la bandiera italiana. Bonatti e la guida Amir Mahadi, che li avevano aiutati nel trasporto delle bombole ad ossigeno, avevano passato la notte precedente all’ultimo bivacco. Senza tenda né sacchi a pelo, a 50 gradi sottozero, Mahadi subirà l’amputazione delle dita dei piedi e Bonatti si salverà per miracolo. La drammatica vicenda sarà raccontata poi nel suo libro Le mie montagne.
La verità conquistata
Pochi mesi dopo esce in Italia La conquista del K2 di Ardito Desio, la versione “ufficiale” dell’impresa. Tra l’altro vi si legge che le bombole portate da Bonatti si erano esaurite due ore prima dell’arrivo e che Compagnoni e Lacedelli avevano raggiunto la cima senza ossigeno. Bonatti, che per portarle aveva rischiato la morte, racconta un’altra verità, ma lo accusano di aver tentato di precedere i suoi compagni, abbandonando la guida in difficoltà e usando per sé le bombole. Un’accusa infamante e impossibile, anche solo perché non aveva con sé la maschera per l’ossigeno e dunque non avrebbe potuto usarle. Lui querela e vince la causa ma ci vorranno anni per riabilitare il suo ruolo. Solo due foto inedite pubblicate nel 1994 mostreranno, oltre ogni ragionevole dubbio, che Lacedelli e Compagnoni avevano raggiunto la vetta con le bombole.
“L’altro K2”, la tragedia del Monte Api
Negli stessi momenti in cui la spedizione Ardito Desio si preparava a partire, un gruppo di brillanti alpinisti del Cai di Milano progettava di salire su una temibile cima dell’Himalaya, il Monte Api. Roberto Bignami, grande amico di Bonatti, Giuseppe Barenghi, Giorgio Rosenkrantz e il 71enne Piero Ghiglione (il più anziano, a capo della spedizione) avevano programmato la prima salita alpinistica italiana oltre i 7.000 metri scegliendo di conquistare i 7.132 metri dell’Api, in un territorio inesplorato tra Nepal, India e Tibet. Bignami fu il primo a morire annegando in un torrente, degli altri tornò solo Ghiglione. Era il 16 giugno del 1954. Cosa accadde alla sfortunata spedizione, nota come “l’altro K2”, resta ancora un mistero, è certo però che l’arrivo del monsone giocò una parte fondamentale nel dramma.
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