Autore di numerose colonne sonore, continua ad avere un rapporto costante con il mondo del cinema e del racconto visivo. Sua è anche la colonna sonora di “Dodici minuti di pioggia”, in gara all’ultima edizione dei “Corti di lunga vita”
È noto al grande pubblico come cantautore brillante, profondo e ironico, che miscela i più diversi generi musicali. Ma Sergio Cammariere è anche un importante compositore di colonne sonore, per le quali ha ricevuto diversi premi internazionali.
Dopo la gavetta nei pianobar, lei ha iniziato la sua carriera nel mondo professionale della musica come compositore di colonne sonore. Qual è il suo modo di interpretare e di sentire il rapporto tra musica e immagine?
Una buona colonna sonora, una buona musica può dare molto al film. Aiuta in maniera importante, basti pensare ai film di Fellini senza le musiche di Nino Rota o alle opere di Sergio Leone senza quelle di Ennio Morricone. Quando il connubio tra regista e compositore è indovinato, il film ne trae sicuramente vantaggio. Ogni regista chiaramente fa un film diverso e le suggestioni sono diverse, devo concordare sempre prima con lui le musiche che vanno su scena. Si lavora insieme per accompagnare le immagini e riuscire a trasmettere un’emozione. Ma in Italia, purtroppo, la cultura cinematografica va sparendo, anche per quanto riguarda le colonne sonore.
C’è una specificità nello scrivere commenti per un cortometraggio, che necessariamente non permette divagazioni?
Ho un grande archivio di composizioni mie inedite, catalogate per generi. A volte da questo archivio nascono canzoni o temi da film. Ovviamente sono composizioni pianistiche o di natura elettronica. Addirittura spesso è successo che una mia canzone sia diventata il tema di un cortometraggio o la song di un film, come Siedimi accanto per il film Maldamore di Angelo Longoni o L’anarchico per Il banchiere anarchico di Giulio Base.
Com’è nata Dodici minuti di pioggia, che commenta l’omonimo corto animato di Fabio Teriaca e Juan Pablo Etcheverry e che, come altre sue composizioni, ha vinto premi prestigiosi?
Quel giorno, quando incisi quel brano al pianoforte, era un pomeriggio autunnale. Davanti alla vetrata di casa che dà sul giardino cadevano le foglie e l’atmosfera era ovattata. Mi sono seduto al piano ed è nata la melodia.
Del brano esiste anche una clip in bianco e nero che miscela foto e girato con un’intenzione un po’ nostalgica. Ovvero la musica può essere letta in millanta modi da ciascun ascoltatore e visualizzata con altrettante immagini. E in fondo non ce n’è una autentica, nemmeno quella pensata dal suo autore…
L’autore è solamente il creatore di un brano, poi ognuno se ne impossessa e lo reinterpreta come sente. Quando il pezzo diventa di tutti e viene condiviso è sinonimo di successo.
La giuria del premio Corti di lunga vita, presieduta dal regista Paolo Virzì, lo ha proclamato vincitore dell’edizione di quest’anno, il cui tema era “Tutta la vita”. Secondo lei, per quale motivo è stato scelto dalla giuria?
Perché racconta una storia italiana, una storia di crescita sociale e culturale. Una storia semplice che tocca il cuore.
Come è avvenuto il suo passaggio alla canzone d’autore, solo dieci anni dopo, nel 2002, con il pluripremiato Dalla pace del mare lontano?
Da sempre sono stato un autore di musica e canzoni, e il mio passato, la mia gavetta da musicista mi hanno insegnato molto. Io mi sento un continuatore della grande scuola degli Anni ’60. Come se dopo Tenco e tutti gli altri, in coda, arrivassi anch’io. Sono fiero di fare parte di questa piccola setta, siamo in pochi. La poesia è la differenza fra questo tipo di canzoni e quelle che passano alla radio.
Oggi, che sta entrando nel suo sessantesimo anno di età, musicalmente parlando quali sono le qualità che crede di aver acquisito e le doti che le pare di aver perso?
Ho acquisito l’esperienza e un rapporto più diretto con il pubblico, perché durante i concerti mi capita di giocare con il pubblico e di renderlo partecipe. Quello che ho perso… Non ho perso nulla, credo. La musica è una continua evoluzione, non si ferma. È arte del divenire. Quello che non perderò mai è il mio rapporto con il pianoforte, l’istinto creativo e improvvisativo.
L’ironia che è sempre presente nel suo fare musica, lo è ancora oggi che l’Italia non vive un periodo propriamente “brillante” dal punto di vista socio-economico?
Lo è ancora di più.
Dopo aver pubblicato a maggio il decimo album La fine di tutti i guai, si sente ancora “un cantautore piccolino confrontato a Paoli Gino”?
Parlando di ironia, quello è sicuramente un brano ironico. Ho avuto il piacere di scrivere una canzone, Cyrano, con Gino Paoli, e abbiamo anche riso di questo…
L’ultimo album è dedicato all’amore e rappresenta un poco la sua “svolta pop”. Perché questa scelta, dopo un cd di pianoforte solo come Piano del 2017?
Perché sono due anime della stessa persona. Le composizioni che fanno parte dell’album Piano hanno trovato collocazione in altre opere cinematografiche, per esempio nel docufilm Prima che il gallo canti, di Cosimo Damiano Damato, in Ritratto di mio padre, di Maria Sole Tognazzi, e in altre opere prime. È un disco dove ho provato a trasmettere la mia conoscenza musicale e spirituale. Solo io e il mio piano. Canzoni senza parole. Ogni brano un quadro diverso, intimo, sincero e profondo. Viceversa La fine di tutti i guai è il mio decimo album da cantautore, 11 brani, sintesi di quei contenuti musicali che appartengono al mio mondo, abbracciando tutti i generi.
Molto del suo fare musica è debitore del jazz o comunque si rapporta con la musica afroamericana. Cosa pensa del panorama jazzistico italiano di oggi?
Il jazz italiano vanta grandi maestri, da Enrico Rava a Stefano Bollani, da Danilo Rea a Paolo Fresu. E così dicendo potrei citarne tanti altri.
E cosa pensa del panorama musicale in generale, con la pressoché totale dipendenza dei giovanissimi da rap e derivati vari? E come lo immagina tra dieci, vent’anni?
Noi siamo il Paese del bel canto e la forza melodica delle nostre canzoni non finirà mai. Fa parte della nostra cultura, è nel nostro Dna. Io ho avuto la fortuna di conoscere alcuni grandi cantautori. Ad esempio, ho avuto un buon rapporto con Sergio Endrigo. Quando arrivai terzo a Sanremo, nel 2003, e dissi in Tv che anche Endrigo arrivò terzo con L’arca di Noé, mi telefonò per ringraziarmi. Perché grandi come lui, Lauzi e Bindi erano stati dimenticati.
Lei è anche un appassionato di immagini: sono più di vent’anni che filma i momenti salienti della sua giornata. Perché? E che fine farà tutto quel materiale?
Domanda interessante. La risposta è: non lo so. Una cosa è certa. Insieme al mio amico Gianmarco Tognazzi abbiamo anticipato i tempi. Siamo riusciti a fare con i mezzi di allora quello che si fa oggi sui vari social. Il selfie credo sia una mia invenzione, sono stato uno dei primi nel ’92 a usare obbiettivi grandangolari, autoriprendendomi quotidianamente.
Ha in programma anche un documentario su Rino Gaetano, di cui ha scoperto essere cugino addirittura dopo la sua morte…
È un progetto a cui tengo, ci stiamo lavorando. Non voglio dire ancora nulla. Quando sarà il momento ne riparleremo. Una cosa insieme alla fine però esiste e si può facilmente trovare. Cercando sul canale Sky on demand il format “33giri master” viene fuori una puntata intitolata Mio fratello è figlio unico, completamente dedicata all’album di Rino Gaetano. Nel filmato risuono con il mio piano questa canzone sulla voce indimenticabile di Rino.
Ma la vita dell’artista è proprio ancora oggi in Italia, come diceva una sua canzone, una “vita da cani, senza illusioni”?
La vita d’artista è una vita piena, non oserei definirla da cani. Un conto è l’ironia nelle canzoni, un altro è la realtà. Essere un artista è una vita piena di soddisfazioni. È uno scambio di sentimenti e d’amore con il pubblico.
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