La Residenza Sanitaria Assistita per gli ospiti può diventare un trauma, così come per le loro famiglie, afflitte dai sensi di colpa. Per questo è fondamentale creare un ambiente favorevole dal punto di vista relazionale, empatico e, naturalmente, di cura.
È “una vita possibile” quella della persona anziana ospitata in una casa di riposo? Certamente è una condizione particolare, spesso dominata dalla malattia e dalla perdita dell’autosufficienza; anche in questi ambienti, però, è possibile una vita degna di essere vissuta. Molto dipende dall’ospitalità che viene offerta ai residenti, dalla qualità del trattamento da parte del personale di cura, dall’atmosfera positiva che vi si respira; ma molto dipende anche dall’atteggiamento che assume l’ospite verso il passare del proprio tempo.
È una vita diversa da quella di chi risiede nella propria casa, ma è sempre augurabile costruire un modo di trascorrere il tempo che rende la permanenza in una RSA (così sono chiamate la maggior parte delle residenze per anziani, almeno quelle più moderne e meglio attrezzate) un momento di vita.
In maniera schematica descrivo di seguito i punti chiave perché la vita sia “possibile” anche nelle residenze. Il primo punto è di carattere sociale; l’opinione diffusa in una comunità deve interpretare le RSA del proprio territorio come luoghi dove si vivono anni intensi, anche se spesso accompagnati da malattie. Non sono collegi per bambini-anziani né manicomi, ma ambiti più o meno belli dove la persona riceve un’assistenza adeguata alle sue esigenze, mirata a ridurre il dolore, a combattere la solitudine, a controllare le malattie che altrimenti accorcerebbero la vita, a dare senso alla giornata. La comunità deve collaborare alla costruzione di senso alla vita dei propri anziani, anche quando non possono più rimanere a casa a causa di rilevanti interventi clinico-assistenziali. La comunità non deve alzare muri fisici o psicologici, ma entrare fisicamente con una presenza fattiva e con forte attenzione sociale dove vivono gli anziani. Questi, così, avranno l’impressione di essere all’interno di una generosa comunità curante e non si sentiranno relegati in un edifico più o meno ospitale, ma sempre altro rispetto al resto della città. Purtroppo, la crisi del Covid-19 non ha facilitato l’osmosi tra gli ospiti e il mondo esterno; però, pur tra molte difficoltà, si sta ritornando ad una relativa normalità (nella speranza di una evoluzione benigna della pandemia).
Un contributo importante alla vita possibile nelle RSA viene dato dai famigliari, i quali devono superare la crisi provocata dal ricovero e i relativi sensi di colpa. È un passaggio fondamentale, perché la visita periodica deve inserirsi nella giornata non come una frattura o, al contrario, come un tempo favorevole tra tanti momenti negativi. In questa logica anche il rapporto con gli operatori deve essere un momento di vita normale, non occasione per recriminazioni e tensioni. Il proprio caro ospitato in una RSA è accudito da persone capaci, amorevoli, disponibili, con le quali spesso sviluppano rapporti intensi; si costruisce su basi diverse rispetto al passato una nuova convivenza, nella quale il famigliare si deve inserire senza invidie e senza il timore di essere sostituito negli affetti del proprio caro. Oppure, al contrario, senza il timore di un trattamento inadeguato rispetto ai bisogni di chi viene assistito; si devono evitare tensioni tra i famigliari e il personale che coinvolgono, anche se involontariamente, l’ospite, creando situazioni di disagio.
Il tempo trascorso dall’ospite con gli operatori è caratterizzato da atti di cura specifici e anche da momenti che riempiono gli spazi vuoti della giornata. Sempre, prevalgono i tempi della relazione, della vicinanza, dell’accompagnamento. D’altra parte, spesso la vita prima dell’ingresso era caratterizzata da scarse relazioni, da difficoltà nell’organizzare le molte ore vuote, da un’assistenza precaria; in questa prospettiva la vita è migliorata rispetto al tempo precedente, con vantaggi indubbi per la salute e la serenità dell’ospite. Talvolta è difficile superare lo stress dell’ingresso, mentre il ripetuto appello pieno di tristezza “voglio tornare a casa” continua a risuonare. In questo caso è necessaria forte disponibilità e intelligenza da parte del personale, per costruire con pazienza e determinazione una “vita possibile” (dell’ospite, ma anche del famigliare oppresso dal senso di colpa).
Mi permetto una considerazione finale: tra i lettori della nostra Rivista vi sono certamente persone che, direttamente o indirettamente, sono coinvolte con la vita nelle RSA. Questo articolo non vuole essere un pannicello caldo sulle ovvie difficoltà di una situazione, con il relativo carico di sofferenza, ma la descrizione di una modalità di “vita possibile” oggi nella realtà italiana.
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