“Ci rivolgiamo a chi ha milioni di contatti con il mondo, a un movimento, una rete, un hacker che abbia a cuore la nostra sopravvivenza e la disfatta di chi la sta mettendo in pericolo. Chi è nato durante la Seconda guerra mondiale è cresciuto pensando: “mai più”. Mai più una guerra. 50 milioni di morti sembravano aver fatto rinsavire il mondo. Da allora guerre e genocidi non sono mai finiti. Gli ultimi li abbiamo sotto gli occhi: l’avanzata inarrestabile della Nato; l’invasione russa dell’Ucraina; l’atroce attacco di Hamas e la risposta inumana di Israele; il martirio infinito delle genti di Gaza. Stragi, stragi, stragi. Quando vedo la gente mitragliata mentre va a prendere la farina, penso che loro siamo noi. Non in senso evangelico, ma storico. Nessuno ci vuole salvi. Tutti ci vogliono armati. C’è una fame di guerra che somiglia ai prodromi della Prima guerra mondiale e annuncia la terza, e veramente ultima. Ho paura. Abbiamo tutti paura. Ma ci illudiamo che armandoci ci difenderemo. No, armandoci ci consegneremo alla guerra, al nemico, alla morte. Abbiamo un sogno. Che qualcuno che abbia i mezzi di comunicazione adeguati a svegliare la terra, dichiari uno sciopero mondiale contro la guerra. Per un giorno incrociamo le braccia. Per un giorno non si produce e non si consuma. Se anche il 20 per cento aderisse, anche solo per qualche ora, produciamo un danno economico come dieci guerre. Così il mondo si accorgerà che esistiamo: noi che vogliamo la pace, perché la pace è la vita”. Quando ho ricevuto l’appello di cui vi ho copiato le prime venti righe (è molto più lungo e circostanziato), ho provato un momentaneo sollievo dall’ansia che mi divora da tre anni a questa parte. Mi sono detta: “Allora non sono sola, io che rifiuto la guerra”.
Me l’ha mandato una donna che conosco bene, Ginevra Bompiani, una scrittrice importante, una studiosa serissima e sempre impegnata a ragionare sul mondo; ma, soprattutto, una donna che ha più di ottant’anni, l’età del silenzio, una donna che lotta per parlare e per essere ascoltata quando la vorrebbero muta e rassegnata.
Perché è così che ci vorrebbero, ancora e forse per sempre: zitte. Noi donne. Noi donne vecchie. Noi pacifiste e pacifisti.
L’invito ad uno sciopero mondiale contro la guerra mi è subito sembrato affascinante quanto irreale. Un sogno. Ma bisogna continuare a sognare, vero? Il territorio del sogno è più impraticabile dell’impervio territorio della speranza. È più impalpabile, ha contorni sfumati, ma pulisce l’anima.
Il pacifismo, mi dicono, è “roba da sognatori”. Forse, però io vi devo confessare che la mia unica certezza etica e politica è contenuta in una frase del Vangelo: “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te” (Matteo 7, 12). C’è tutto, in quelle parole. È la bocciatura della violenza in tutte le sue forme.
In questi anni di guerre visibili, portate nelle nostre case dai telegiornali, ho sofferto e soffro ogni giorno di più. Mi fa soffrire il dolore degli altri. I disagi fisici di una vita quotidiana che si svolge al freddo, senza più un tetto a proteggerti; mi fa soffrire che soffrano la fame (noi italiani nati nel dopoguerra neppure la conosciamo e non la abbiamo mai provata). Mi fa soffrire sapere che bambini piccoli muoiono di freddo, mi getta in una disperazione emotivamente intollerabile. Ci sono madri e nonne che vedono creature appena venute al mondo piangere e poi spegnersi, come congegni arrivati a esaurimento, all’improvviso non piangono più, e nella minuscola bolla di silenzio che segue i vagiti interrotti si celebra la sconfitta più atroce: la guerra che impedisce ai nuovi nati di vivere, di conoscere il bello e il brutto della vita. Di crescere.
Certe sere vorrei semplicemente non guardare, ma mi è tornata alla mente un’antica conversazione, tra me ragazzina e mia madre. Avevo appena finito di leggere Se questo è un uomo, avevo, più o meno, dodici anni. Ero rimasta colpita profondamente dal romanzo, avevo scoperto i campi di concentramento, la persecuzione di un popolo, la follia nazista che fece sei milioni di morti; cercai mia madre, la trovai in cucina, stava preparando la cena. Le chiesi: «Ma tu, nel 1938, quando Mussolini firmò la legge per la difesa della razza, quando incominciarono a deportare e uccidere persone innocenti, anche da qui, anche dall’Italia, tu c’eri, tu eri già abbastanza grande, tu che cosa hai fatto?». Lei mi rispose evasiva: «Io non sapevo niente, non c’era mica la televisione in quegli anni».
Ecco, adesso la televisione c’è. Nessuno può dire non c’ero o non sapevo. Siamo bersagliati da una quantità tossica di immagini. Conosciamo il pallore malato degli ostaggi israeliani restituiti e l’angoscia delle madri di quelli che non sono ancora stati restituiti. Conosciamo le città distrutte nella striscia di Gaza. Abbiamo visto quel che resta di case e strade, degli ospedali, abbiamo visto i sacchi in cui continuamente vengono sepolti alla svelta i cadaveri. Abbiamo visto. Abbiamo ascoltato i potenti blaterare minacce, puntarsi addosso ciascuno la sua atomica, come se potessimo permetterci di usarle, quando si sa che sarebbe la scomparsa dell’umanità. Siamo tutti perfettamente informati di quello che sta succedendo nel mondo. E che cosa abbiamo fatto? Che cosa vogliamo fare?
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