Il volume Prime. Dieci scienziate per l’ambiente racconta la biografia di altrettante studiose e ricercatrici che si sono dedicate ai problemi ambientali, affrontando per prime problematiche importanti. Ne abbiamo parlato con il curatore Sergio Ferraris.
Maria Sibylla Merian fece nel XVII secolo una prima classificazione di tutti gli insetti che si sviluppano dalla crisalide. Jeanne Baret, travestita da uomo, circumnavigò il globo per effettuare ricerche botaniche poco dopo la metà del ‘700. Mária Telkes sviluppò contributi determinanti sull’energia solare. Dian Fossey fu la prima a sottolineare la necessità di conservare gli ambienti naturali per preservare le specie, evitando gli zoo. Sylvia Earle è una dei maggiori conoscitori dell’oceano viventi.
Con Jane Goodall, la studiosa degli scimpanzé, e Dana Meadows, voce principale del movimento della sostenibilità, sono alcune delle protagoniste di Prime. Dieci scienziate per l’ambiente, volume appena pubblicato da Codice Edizioni. Unica italiana Laura Conti, fondatrice della Lega per l’Ambiente e pioniera dell’ecologismo. Abbiamo parlato di loro, e non solo, con il curatore del libro Sergio Ferraris, direttore della rivista di Legambiente QualEnergia e di Nextville, giornalista de La Stampa, Materia Rinnovabile, La Nuova Ecologia, e vincitore del premio Reporter per la Terra nel 2015.
Come vi è venuta l’idea di questo volume biografico?
Perché le scienziate ambientali sono per lo più ignote al grande pubblico, e alcune assolutamente sconosciute. Ad esempio Eunice Newton Foote, che ha fatto una scoperta da poco, l’effetto serra per intenderci, anche se le è stata sostanzialmente scippata da un uomo (il fisico e matematico francese Joseph Fourier, ndr). Sono storie di ordinaria scienza, che succedono regolarmente, come quella di Rachel Carson, che fu addirittura derisa in vita per le sue analisi, anche se poi il suo libro Primavera silenziosa ha fatto bandire il DDT, un’altra robetta da poco.
Ci siamo resi conto, con Mirella Orsi, che ha curato con me il libro, che le scienziate ambientali, nel panorama della presenza femminile nella scienza che già non è esaltante, erano ancora più ignorate. C’è persino un grosso problema di fonti. Pensi che di Foote, scomparsa nel 1888, non esiste una foto certa. Tutti coloro che la citano pubblicano l’immagine della figlia e non della scienziata. C’è una negazione storica del ruolo delle donne, per cui andare in là nel tempo è stato veramente difficoltoso. Abbiamo deciso di fare un libro collettivo, con dieci giornalisti ambientali, metà uomini e metà donne, perché ci interessava il punto di vista sia in un senso che nell’altro, e una scrittura delle biografie fatta in maniera informativa e accessibile.
Perché, secondo lei, c’è ancora oggi una limitata presenza di donne in ambito scientifico. Sono circa il 30% degli scienziati in attività e gli stessi studenti delle discipline stem (scienza, tecnologia, economia, matematica) sono per quasi tre quarti maschi…
Anche negli ultimi 50/60 anni i ruoli meno esaltanti sono stati attribuiti alle donne. Pensi ai programmatori dei computer. Gli ingegneri facevano l’hardware, la roba tosta, complicata. La programmazione, il software, veniva demandato alle donne. È stata una donna a programmare le linee del codice che ha portato gli uomini sulla Luna, ad esempio. Poi, negli Anni ’80, quando fare software diventava una cosa di successo, sono state improvvisamente espulse. Bill Gates e Steve Jobs sono diventati ultramiliardari riappropriandosi di una fetta di business e anche di potere che prima era lasciata alle donne. Quando certi settori sono diventati di successo, sono diventati respingenti verso l’universo femminile. E questo si ripercuote su chi accede a queste discipline.
Però abbiamo oggi anche storie fantastiche, quando viene riconosciuto il valore delle donne e non sono discriminate. Ad esempio, la direttrice del più grande centro di ricerca mondiale per quel che riguarda la fisica, il CERN, è Fabiola Gianotti, una donna con un cervello pauroso.
Le donne sono più sensibili alle problematiche ambientali?
Sicuramente, perché hanno maggiore disponibilità nei confronti dei fenomeni naturali, che di converso sono un settore lasciato scoperto dai maschi. I grandi scienziati uomini del settore ambientale della seconda metà del secolo scorso si sono sempre occupati di situazioni “grandi”. Fisici, ingegneri, chimici e quant’altro lasciavano quelle che erano considerate le cenerentole della scienza, come la biologia o l’antropologia animale, alle donne.
Si dice spesso che oggi sono più i giovani degli anziani a interessarsi dei problemi ambientali. È vero o falso?
Questo dipende da come si intende la questione ambientale. Perché rispetto agli Anni ’60 sicuramente è vero, mentre rispetto agli 80/90 ho molti dubbi. Sicuramente oggi c’è una maggiore sensibilità perché circola più informazione. Abbiamo molti più strumenti di informazione, internet, i social, gratuiti e in mano ai giovani. Negli Anni ’80 una rivista dovevi comprarla e anche pagarla cara.
Su quanto siano più sensibili in generale ho ancora dubbi, perché noi viviamo in una bolla informativa green, ma, quando vai a parlare con i ragazzi di Fridays for Future (il movimento creato da Greta Thunberg, ndr), che sono liceali sedici/diciassettenni, ti dicono «guarda che noi siamo delle mosche bianche, il 90% dei nostri compagni sono dei consumisti che spendono un sacco di soldi per delle Nike che buttano nel momento in cui non vanno più di moda». Per cui non lo so se in realtà la bolla green è solo mediatizzata oppure se c’è realmente una maggiore sensibilità. Lo si vedrà quando i giovani diventeranno dei consumatori ad ampio spettro e si avrà o meno uno sviluppo del consumo responsabile, etico, orientato a una bassa emissione di carbonio e così via.
Cosa può stimolare un over a una maggiore attenzione alle problematiche ambientali?
La riflessione che ha fatto Roger Hallan, il sociologo che ha fondato Extinction Rebellion, mettendo finalmente fine alla cavolata del conflitto generazionale sulle questioni climatiche. Ha portato in piazza nel 2019 decine di migliaia di persone di tutte le età con lo slogan “i giovani sono preoccupati per il proprio futuro, i nonni sono preoccupati per il futuro dei propri nipoti”. È stata la soluzione vincente, perché c’è un problema di travaso di saperi e di memoria, anche da parte di ambientalisti come il sottoscritto. Io ho 63 anni e mi sento il dovere, l’imperativo morale di passare il testimone a qualcun altro.
In generale oggi la tecnologia quanto è inclusiva, etica, mirata ad appianare le diseguaglianze e quanto invece risponde a circuiti di potere che tendono a mantenere lo status quo?
Oggi come oggi la tecnologia, compresa quella ambientale, sta andando indietro da questo punto di vista. Io ho vissuto da trentenne i primi anni di internet e l’esplosione del web con le tutte le promesse di libertà, di diffusione delle notizie e tutto quanto. Negli ultimi 15 anni si è andati molto indietro. La gestione e il possesso dei dati attraverso le tecnologie ha realizzato degli splendidi giardini con delle recinzioni molto alte e chiuse, dove tu fai qualcosa che decide qualcun altro.
La tecnologia ha oggi delle enormi potenzialità. Senza non vinceremo mai la sfida del green, almeno di non andare a una decrescita feroce con consumi energetici pari a quelli del 1930 con una popolazione di 8 miliardi di persone. Il problema è che non c’è un suo accesso e una sua gestione dal basso. Ci si affida a grandi incubatori, sistemi, che poi virano in maniera netta e diretta verso il business più feroce. Ne è un esempio Uber, che sembrava poter essere un alfiere della sostenibilità, perché la vettura privata poteva essere utilizzata anche dal pubblico facendo così più chilometri con meno autovetture. Invece è diventata una forma quasi di schiavismo.
Le tecnologie hanno il problema che, quando vanno sul mercato, diventano strumenti potentissimi di accumulazione di valore, di denaro, a scapito dei corpi sociali. Purtroppo quelle ambientali rischiano di fare la stessa fine. Adesso ci sarà l’assalto dei dati ambientali da satellite o di altro tipo che saranno utilizzati, non si sa bene come né quando, incrociati con i dati dei social e dei consumi energetici. Si va verso una digitalizzazione di massa di dati che non si sa come potranno venire utilizzati.
Poi l’intelligenza artificiale e i servizi ad alto valore aggiunto, come la guida senza conducente e la domotica, avranno bisogno di grandissima velocità computazionale. Nessuno si può mettere in casa un sistema di intelligenza artificiale, come abbiamo fatto con il pc negli Anni ’80, perché l’AI ha bisogno di una velocità di calcolo e di gestione dei dati immensa. Saranno ancora recinti isolati cui si potrà accedere solo in base al censo.
La scienza, anche quella ambientale, oggi vive un periodo di grande crisi di fronte al negazionismo e alle fake news, ormai pressoché indistinguibili dalle vere. Cosa ne pensa?
È un pericolo enorme che si intensificherà con l’utilizzo dell’AI, specialmente su contenuti multimediali. Fra due anni avremo filmati sintetici che creeranno problemi enormi dal punto di vista dell’informazione e del giornalismo. Pensi a cosa saranno i filmati finti in scenari di guerra. Sono draconiano in questo: chi spaccia falsità deve cambiare mestiere. Bisogna fare processi in stile Robespierre.
Le fake news verranno ancora amplificate in un prossimo futuro, per cui saranno indispensabili strutture giornalistiche che dicano “signori miei, io ho il bollino di qualità perché ho preso provvedimenti”. Durante la seconda guerra del Golfo, agli inizi degli Anni 2000, un fotografo del Los Angeles Times fece una foto durante un’azione di battaglia, scordandosi la borsa fotografica in primo piano. Questa foto eccezionale presentava un soldato che correva e il fotografo con photoshop tolse la borsa, ma commise l’errore di mandare sia l’originale sia quella trattata alla redazione. Il giornale lo licenziò in tronco, senza neppure pagargli il biglietto di ritorno dall’Iraq. Sembra esagerato, ma quello che conta è il principio. Ricordo l’editoriale del direttore. «L’informazione non si tocca, noi dobbiamo garantire a voi lettori che comunque chi manipola una notizia, un’immagine, anche in maniera veniale, non è dei nostri, viene licenziato».
O si va verso una fornitura di qualità, per cui se leggi Ferraris è così, non ha inventato, al massimo puoi trovare un refuso ma nulla di falso. E quando commette un errore lo scrive in maniera chiara, come fa il New York Times: “in questa notizia c’era un errore che è stato corretto, questo è il paragrafo giusto e questo quello sbagliato” e rimane lì a indefessa memoria. È una questione di trasparenza. Vale specialmente per i giovani che leggono le notizie sui news reader o sui social del telefonino. Se in questo flusso di notizie trovano cose che li inducono a non fidarsi smetteranno di credere a tutta l’informazione.
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