Giuseppina Saracino.
Si è occupata di formazione per adulti per conto di una società del gruppo Eni e per alcuni organismi internazionali. Il suo lavoro l’ha portata a viaggiare spesso nei paesi produttori di petrolio e si è occupata anche di problemi di immigrazione in Italia. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Roma.
«Signora, avevo dei sospetti, ma dall’ecografia risulta evidente, lei ha un melanoma all’occhio sinistro. Signora, mi sente? Rimanga pure seduta. Le spiego…». «Cos’è, scusi, un melanoma? È grave?». «Sì, è grave». «Mi dovrò mettere gli occhiali fissi? Gli occhiali non li ho mai sopportati. Nemmeno quelli da sole». «No, non c’entrano gli occhiali… ». Alla mia reazione non ancora impaurita ma incredula e riluttante, l’oftalmologo giovane, in jeans e golf casual, – i camici bianchi, negli studi privati non li mettono più, perché sono ansiogeni per i pazienti – cercava di mantenere la sua calma professionale ma avvertivo un certo imbarazzo. Si sforzava di essere cortesemente esaustivo nelle informazioni, sfiorandomi anche il braccio. Quando fanno così, in genere, i dottori, ti devono dare una brutta notizia… Proseguì: «il melanoma, volgarmente è un neo che nel suo caso, bisogna distruggere, per salvaguardare la vista». «Io ci vedo bene, sono venuta qui perché ho bisogno di un nuovo paio di occhiali, per la lettura e poi, ho altri nei sul corpo. Vengono e se ne vanno … Ne avevo uno, nero, ben visibile, fra i due seni. Era quello che mi piaceva di più. Un bel giorno, è sparito». «Signora, questo neo non sparirà da solo. Mi spiace, bisogna intervenire subito, bombardarlo». Oddio, che parole forti! Distruzione, bombardamento. Forse questo dottore, dall’aria così mite e gentile, vede troppi telegiornali.. Lui, poi, andando avanti: «Sì, bisogna intervenire con sostanze radioattive. È un tumore. Anche gli occhi ne possono essere colpiti, di pazienti di ogni età, da quella pediatrica fino all’età anziana, anche se sono patologie rare. Il suo è il secondo caso che mi è capitato, durante la mia vita professionale. Se fosse mia madre, la porterei subito a Boston, oppure a Losanna. Qui c’è un chirurgo molto bravo, un greco-turco, che ha messo a punto l’adroterapia, una tecnica che utilizza dei fasci di protoni accelerati, permettendo un dosaggio preciso delle radiazioni, risparmiando i tessuti circostanti, salvando l’occhio e se il nervo ottico non è toccato, anche la vista… Adesso, le vedo su internet l’indirizzo». «Dottore, non si scomodi, lo posso fare io da casa, ma, scusi, visto che lei non è mio figlio, in Italia non c’è nessuna struttura, dove poter andare?». «L’unica, è un Policlinico romano che da qualche anno, in via sperimentale, sta facendo un tipo di operazione, adatta al suo caso. L’importante è che decida prima possibile».
Mentre stavo raccogliendo tutte le mie carte, per andarmene, mi diede un ultimo suggerimento: «controlli il fegato; sarebbe opportuna un’ecografia». «Perché?». «È l’organo orientato direttamente all’occhio, per tropismo».
«Che bella notizia!», commentai fra me e me, appena uscita dallo studio oculistico. Ho un melanoma, dal nome così mielato, quasi melodioso che risulta essere un volgarissimo neo ma, a quanto pare, assai pericoloso. Io, il neo, l’avevo sempre associato a qualcosa di leggero, grazioso, civettuolo. Mi rimandava alle damine incipriate del ´700… Trascorso il primo periodo di sbandamento, del «se è così raro, averlo in un occhio, perché proprio a me» e poi, con il tempo trasformato in «perché non a me?», diedi inizio alla fase informativa/investigativa.
In genere, la comincio sempre dall’etimologia delle parole; quindi, sono andata a consultare lo Zingarelli, una vecchia edizione del ´70 che ho a casa, a portata di mano. Melanoma: “tumore caratterizzato dall’accumulo di melanina nelle cellule dell’epidermide”. Poi, ho guardato anche neo e ho letto: “malformazione cutanea di origine embrionaria di aspetto diverso, spesso pigmentato di scuro e fornita di peli, ad evoluzione varia”. Proseguendo, sempre, sotto neo, sul dizionario, c’era una frasetta, a mo’ di esempio: “Piccola imperfezione, difetto appena visibile: i nei di quel lavoro ne accrescono la bellezza”. (Quest’ultima parte, era, in corsivo, come fedelmente riportato). Questa frase mi è stata di grande aiuto, permettendomi, in seguito, di fare anche delle utili elaborazioni mentali.
Dopo la fase consultiva sul dizionario, ho cominciato la fase informativa su internet. Ogni anno, un europeo, su 100.000, sviluppa un tumore oculare. Nella sola Svizzera, erano già 2500 i pazienti con melanoma intraoculare, trattati con l’adronoterapia, quella tecnica di cui mi aveva parlato il dottore. Il chirurgo greco-turco, che mi ricordava paesi che amo molto e che operava a Losanna, mi aveva incuriosito. Infatti, dalle foto, aveva un viso simpatico, gioviale, ma aveva un occhio abbassato. Forse, per un caso di infermità personale, si era dedicato a tale specializzazione. Intanto, il giovane dottore che aveva fatto in me la “grande scoperta”, lasciava premurosamente continui messaggi alla segreteria telefonica, anche in orario non lavorativo. Voleva sapere cosa avessi deciso.
Infine, mi operai al Policlinico romano. Mi affidai ad una donna chirurgo che si era specializzata a Boston e che era in continuo contatto professionale con il greco-turco di Losanna. Ero riuscita ad includere tutto.
La sua determinazione, nel farmi operare, mi aveva convinto all’istante ed in seguito, rivivendo quei momenti densi ed importanti, anche la mia determinazione ad accettare, fu all’istante. Due istanti che si sono incontrati, al momento giusto.
In seguito, fra un controllo ed un altro, assai ravvicinati, nei primi tempi, quella seconda parte della frase, trovata nel mio vecchio Zingarelli, “i nei di quel lavoro ne accrescono la bellezza” continuava a lavorare in me. Ma come mai il difetto, l’imperfezione potevano essere dei valori accrescitivi?
Mi sembrava, da principio, un’assurdità che però si è andata mano a mano smantellando…
Per chissà quale ragione profonda e sotterranea, ad un certo punto, sono stata attratta dalle imperfezioni, da tutto ciò che non era perfetto, perfino dai guasti, permanenti o temporanei, di oggetti, quali: collane, maniglie, tazze… che mi rigiravo fra le mani. Non mi ci arrabbiavo più come prima. Mi ricordai della cultura giapponese. Vasi rotti, riaggiustati con cura, a volte, con filo d’oro, nei quali, però, rimane molto evidente la crepa che per i giapponesi ne accresce la bellezza. Ne avevo visti molti in quel paese, nei musei e nelle case di alcuni bonzi, a capo di antichi templi.
Andavo acquisendo, mano a mano, la consapevolezza di quanto, nella mia vita, avessi amato la perfezione, pur procurandomi, questa, una buona dose di ansia e di stress. Era stata, in un certo senso, il mio modello di comportamento. L’educazione, l’influenza dell’ambiente, qualcosa di genetico, non so, aveva sviluppato tale mia tendenza. Ora, però, questa parola mi risultava stonata, forzata….
Mi ricordai di un seminario, tenuto da Claudio Naranjo, medico, psicologo, allievo di Ignacio Matte Blanco su l’enneagramma. Questo è un modello geometrico, utilizzato come strumento, per dare ordine e concretezza alle conoscenze psicologiche su se stessi e su gli altri. La sua origine si perde nella notte dei tempi. Naranjo che era cileno, lo aveva coniugato con il sapere degli indios sudamericani, arrivando ad operare sintesi inedite ed interessanti. In questo enneagramma che comprendeva le nove tipologie della personalità, ricordo, ero piazzata al numero “Uno”, rappresentante, appunto, il tipo del “perfezionista”. Infatti, mi riconoscevo, nelle sue caratteristiche fondamentali che erano queste: «incline più al dovere che al piacere, con la voglia di voler sempre migliorare le cose, fino a diventare ossessiva. Molto orgogliosa, il cui vanto non è tanto l’essere rispettabile e degna di ammirazione, quanto l’essere indispensabile, amata ed osannata, come una persona molto speciale. Severa con se stessa, esigente e rigorosa con gli altri. Pronunciato contegno e un forte autocontrollo. Ama quel particolare tocco e quello splendore finale che rivela un’attenzione meticolosa per il dettaglio». Mi sono sempre riconosciuta in questi tratti caratteriali, allora, come adesso.
Che c’entra tutto questo con il mio neo? Proprio perché sono una perfezionista, questa caratteristica limitante – mi sono detta – va sfruttata, facendola diventare una opportunità di supporto psicologico. Avendo facilità a cogliere il neo, cioè l’imperfezione in ogni evento, persona e soprattutto in me stessa, mi conviene invertire rotta. Come? Frequentandola di più, addirittura accoglierla, nel modo più benevolo possibile, anche se alla compassione non ci sono ancora arrivata.
A guardare bene, ma proprio bene, tutta la realtà che ci circonda, anche quando ci sembra buona e bella (mondo animato e inanimato) è imperfetta, cioè, parafrasando il mio linguaggio, è piena di nei. E, dietro, è una scoperta recente, ci sono sempre annidate tante paure, piccole e grandi che ci tolgono la serenità.
Una volta, alle nuove generazioni, s’insegnava ad avere coraggio, ad essere ardimentosi, ad osare, a non preoccuparsi troppo per il futuro. C’era la Provvidenza, per tutto. Ora si ha una paura diffusa di quello che, per disgrazia, o accidente, può accadere. Ci procuriamo, quindi, delle difese, per proteggerci. L’assicurazione è diventata una coperta indispensabile: siamo assicurati contro le malattie, gli infortuni, professionali e non, i ladri, gli incendi, i borseggi, i terremoti, le infiltrazioni d’acqua, financo contro i morsi e i graffi dei nostri cani e gatti verso terzi…
Esitiamo molto a considerare l’esistenza in se stessa difettosa, con la sua instabilità, insicurezza, cambiamenti, perdite. Litighiamo continuamente con i nostri limiti: fragilità, pigrizie, difettucci… In effetti, l’esterno, non ci è di aiuto perché gli altri, si aspettano da noi: salute, efficienza, buon umore, entusiasmo…
La sola idea di avere un limite ci inquieta, perché, accettarlo, significa rivelare la crepa, lo spacco, quella fenditura dell’imperfezione, attraverso la quale, può passare tutto quello che non ci piace di noi ed esporci al giudizio altrui.
Proprio l’inclusione del limite è quello che invece, ci rende umani e l’umanità, in fondo, è la nostra essenza. Oltre ad avere un valore filosofico, psicologico e perfino spirituale, risulta essere un requisito educativo fondamentale, per lo sviluppo e l’autenticità della persona. Il non tenerne conto è una maniera per sconvolgere non solo la propria salute mentale ma anche la nostra visione della realtà, perché fa parte della stessa vita, ne è il fondamento stesso.
“Vivere, comporta il dover perdere molte volte fino a che non si perde tutto perché al mondo non c’è nulla che in senso assoluto ci appartenga”, diceva lo scrittore e poeta di lingua portoghese Josè Saramago che essendo cieco, di limite se ne intendeva.