La memoria, quando è condivisa, diventa racconto. Ma quando viene filmata può diventare un documentario. È quello che è successo con San Giusto Canavese, uno sguardo al passato, l’ultimo lavoro del regista Andry Verga, un’opera di assoluto spessore sul passato di San Giusto Canavese, borgo del Piemonte.
L’anima del racconto sono le testimonianze raccolte dai suoi stessi cittadini. Un documentario iniziato nel 2016 e con una forte valenza emotiva visto che alcune delle persone intervistate oggi non ci sono più. L’idea del regista, infatti, è stata quella di intervistare alcune persone che potessero, attraverso i loro racconti di gioventù, testimoniare come si viveva negli anni Trenta, Quaranta e Cinquanta del secolo scorso proprio lì, in quel borgo.
Una genesi capovolta: case sparpagliate danno vita ad una comunità
Tra i protagonisti assoluti di questa rievocazione c’è Carlo De Marchi, classe 1922, che racconta la genesi del borgo: «Il nostro è un paese che si è formato in modo diverso dagli altri, perché gli altri son partiti dal centro alla periferia, invece San Giusto è nato dalla periferia».
Un paese nato da tante casine sparse dunque che, man mano che si sono riempiti gli spazi, hanno dato vita a questa comunità. E poi le tradizioni, le rievocazioni, il lavoro nei campi, l’importanza della famiglia: sono tanti i valori che emergono in questo film.
Il documentario su San Giusto disponibile in rete
Il documentario di 64 minuti, causa pandemia, non potrà purtroppo godere di visioni collettive. Non sono state organizzate presentazioni o eventi. Ma è possibile visionarlo in rete, sul portale Vimeo. Tra le testimonianze più toccanti c’è quella di Antonio Ianio, classe 1932, che nel frattempo ci ha lasciati alla fine di dicembre 2018. Le sue parole in dialetto ci riportano indietro nel tempo prendendoci per mano.
Per un attimo ci fanno respirare la purezza dei valori di una volta: «Un tempo erano sempre tutti allegri, a mezzogiorno si arrivava a casa dopo aver tagliato il grano, si mangiava il pranzo e ci si sedeva sotto una pianta insieme ai vicini di casa. Si chiacchierava un po’ e poi verso le tre e mezza, quattro si ritornava nei campi, tutti contenti. Invece adesso la gente non ha più neanche il tempo per salutare».
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