Luciana Salvucci. Laureata in Pedagogia, ha insegnato nei licei, è stata dirigente scolastica e docente a contratto presso l’Università di Macerata. Ha scritto diversi testi di saggistica, poesia e teatro e molti sono stati pubblicati su riviste, antologie e cataloghi. Ha partecipato a Concorsi letterari nazionali e internazionali ottenendo lusinghieri riconoscimenti. Al Concorso 50&Più partecipa per la quarta volta; nel 2020 ha vinto la Farfalla d’oro per la Fotografia, nel 2021 la Farfalla d’oro per la prosa, nel 2022 la Farfalla d’oro per la poesia e ha ricevuto la Segnalazione per la prosa. Vive a Macerata.
Da bambina, mentre con gli amichetti e i fratelli rincorrevo farfalle colorate, incantata dalla luce dorata, seguendo chissà quale meta, ero felice sotto il raggio di mezzogiorno, come fossi in un sogno d’amore. Mi affascinava il bosco di Monteloreto, vicino alla fonte, dove si recavano le donne per lavare i panni.
Sentivo di tanto in tanto qualche signora di Colmurano, velata di grigio, esclamare: “È la figlia de Lu Rancià!” Ascoltavo le loro voci, un po’ sorpresa, senza voltarmi. Non sapevo bene se fosse un complimento o un’offesa. Non conoscevo il significato di quella parola, per me nuova e strana. Chissà cosa intendono dire, ripetevo tra me e me, mentre seguivo con lo sguardo le nuvole che correvano sopra il piccolo monte de Lu Seru e lambivano l’orizzonte. L’avevo cercata persino nel vocabolario e nell’Enciclopedia che avevamo in casa, ma non l’avevo trovata. Per pudore non ne avevo parlato con mio padre.
Conoscevo altre persone che avevano il mio stesso cognome Salvucci, mi ero informata, ma il loro soprannome era diverso: Lu Romanu, Miràculu, Lu Lebbre. Fortunate, pensavo, appellativi molto più comprensibili ed eleganti del mio!
Un insegnante, che conosceva i miei parenti, mi parlò del Castello della Rancia: “Forse la tua famiglia ha qualcosa in comune con quel luogo. È stato un granaio dei monaci.” Io non capii e restai dubbiosa.
Se qualche coetanea mi apostrofava col nominativo Rancià, sorridendo, alla scuola media, mi vergognavo e arrossivo. Per qualche attimo perdevo il sorriso, gli occhi diventavano lucidi e, senza girarmi, restavo con il capo chino. “Però che tristezza, certe ragazze sanno come ferire altre ragazze!” Incurante dei loro sguardi e della loro presenza, rimpiangevo gli amici all’esterno della scuola, la libertà dei boschi e le carezze delle ginestre fiorite.
Dopo gli anni del collegio, trascorsi tranquilli a San Ginesio, ormai giovane donna, un amico mi accompagna in quel luogo che avevo semplicemente immaginato come deposito di grano.
“Ti faccio conoscere almeno una parte della sua storia”. Vado, con la mia bisaccia di sogni.
Una guida ci attende sulla spianata antistante l’ingresso. Fa un cenno di saluto e comincia a parlare.
“Il Castello della Rancia, stile medievale, è proprietà del Comune di Tolentino. Secondo la maggior parte degli storici deriva il suo nome dall’iniziale utilizzo come deposito fortificato di grano, cioè granaio (grancia, dal francese grange, che proviene dal latino granica), disposto dai monaci cistercensi dell’Abbazia di Chiaravalle di Fiastra nel XII secolo. La trasformazione del granaio in castello fu volontà di Rodolfo II da Varano, di Camerino, che, tra gli anni 1353 e 1357, diede ordine a Beltrami da Como di fare i lavori per trasformare la fattoria benedettina in Palatium Aranciae. Alcune tesi, infatti, fanno risalire il nome della Rancia ad Aranciae, in quanto dimora del signore con tanto di giardino degli aranci”.
Il mio amico chiede spiegazioni sui segreti e i misteri che aleggiano intorno al castello.
La guida racconta leggende tramandate, storie segrete e trame di misteri che altri hanno scritto o narrato e lascia a noi il compito di ricostruirne il senso complessivo, come in un mosaico.
“Molti i misteri, le leggende e i segreti arcani che circondano il Castello della Rancia.
Una leggenda narra che Rodolfo murò sua moglie ancora viva in una parte del Castello e il suo fantasma ancora si aggira tra le mura.
L’altra racconta i furti, i saccheggi e i soprusi di una coppia di briganti: La Mazzarantana e il compagno Lu Ragnu. Un giorno la coppia si rifugiò presso il forno di una casa colonica di un contadino della zona, il quale, stanco delle malefatte dei due, li chiuse dentro e lo accese.
Il terzo segreto del Castello della Rancia parla di un documento cinquecentesco, con mappa allegata, secondo il quale è presente un tesoro nascosto nei sotterranei del Castello. In base al documento, riportato dal libro di Alberto Fenoglio, Archeologia magica, vi è un itinerario intricato, contorto e difficile a difesa dell’oro e dei gioielli, pieno di insidie e trappole. Molte ricerche sono state fatte, si sono trovati scheletri, ma nessun tesoro”.
Esprimo alla guida il desiderio di conoscere qualche altro fatto storico e alcune caratteristiche dell’edificio. Un oceano di parole!
“Dal 1581 il Castello della Rancia viene gestito dai Gesuiti e ritorna ad assumere il ruolo di dimora per ospitare i pellegrini e deposito di beni alimentari. Quando il papa Clemente XIV nel 1773 dispone la soppressione della Compagnia di Gesù, la proprietà passa alla Camera Apostolica che, nell’anno 1829, la vende ai Marchesi Bandini, poi principi Giustiniani Bandini, i quali nel 1974 la cedono al comune di Tolentino.
Il Castello, situato in pianura, alla sinistra del fiume Chienti, offre una visuale meravigliosa. Sembra ripercorrere secoli di storia e incanta il visitatore che vuole conservare insieme alla memoria storica, le leggende e i misteri. A fortificare l’ingresso principale si erge una torre. Al Castello in passato si poteva accedere con un ponte levatoio, nel corso degli anni sostituito da un ponte in muratura.
Da visitare l’arco d’ingresso, l’ampio cortile, la Cappella, il pozzo, le grotte e le sale che ospitano il Museo archeologico Aristide Gentiloni Silverij e la Mostra della Compagnia teatrale della Rancia, che dal Castello ha preso il nome.”
Le nuvole e anche il piccolo spicchio di sole illuminano la cinta merlata, consolidata da tre torri angolari.
Salutiamo la guida.
Torneremo a visitare il Castello della Rancia in occasione della Notte dei Musei.
Ci sediamo, io e il mio amico, sul prato di fronte all’ingresso. Il sole entra per intero nel cielo e ci inebria di vita. Socchiudo gli occhi a tratti, quando il sole li strizza.
Ci allontaniamo e mi volgo, di tanto in tanto, per guardare le antiche mura. Il Castello della Rancia stravolge i pensieri con il suo profilo elegante.
“Sembri quasi turbata da questa visita.”
Spiego all’amico il mio interesse e il coinvolgimento personale. Non posso fare a meno di ricordare l’infanzia. “Oggi sono diversa! Sono orgogliosa di essere la figlia de Lu Rancià. Me ne vado leggera.”
“Però, che felice sorpresa!”
Il sole colora di oro i merli del Castello, le rondini cercano il cibo per la prole. Mi vengono in mente gli errori infiniti, il tempo, l’eterno e il presente effimero.
I pensieri arrivano in alto, si attorcigliano al cielo, scoprono la pietà del nostro destino. Un gatto ci segue fino alla macchina.