Luciana Salvucci.
Laureata in Pedagogia, ha insegnato nei licei, è stata dirigente scolastica e docente a contratto presso l’Università di Macerata. Ha scritto diversi testi di saggistica, poesia e teatro e molti sono stati pubblicati su riviste, antologie e cataloghi. Ha partecipato a Concorsi letterari nazionali e internazionali ottenendo lusinghieri riconoscimenti. Al Concorso 50&Più partecipa per la terza volta; nel 2020 ha vinto la Farfalla d’oro per la Fotografia e nel 2021 la Farfalla d’oro per la prosa. Vive a Macerata.
Danzavano con i corpi snelli le ragazze di Capo Nord. Con gli stivali di pelliccia bianca, danzavano tutte insieme sulla neve ghiacciata, dove si specchiava il raggio dell’amicizia. Intrecciavano entrambe le mani e continuavano a girare in cerchio anche quando i fiocchi di neve si posavano sulle trecce bionde e sui corpetti, che pulsavano d’amore.
Perse nella gioia, si muovevano leggiadre e armoniose, prendendosi per mano e facendo allegri girotondi. Ondeggiavano e offrivano sorrisi, che tante cose non dette dicevano. Coi bacini all’indietro e le bocche spalancate si dissetavano coi grandi fiocchi.
Cantavano le ragazze a Capo Nord, bisbigliavano parole d’amore. Intonavano canzoni e filastrocche, scandivano il ritmo insieme, complici di un’appartenenza che non le faceva sentire mai sole.
Respiravano d’amore i giovani a Capo Nord. I canti lanciavano al cielo sogni d’oro. Com’era bello il giorno, che tramontava sulla neve!
Nella grotta Igor, ancora mezzo addormentato, si scuote nel letto di licheni, fa uno sbadiglio, solleva il capo, apre gli occhi scintillanti al buio, e, nel sentire le grida festose, sospira con tristezza.
Da ragazzo si era allontanato dai suoi familiari, troll buoni e altruisti, per trovare amici, scoprire il mondo e conoscere nuovi paesi. Aveva abbandonato il suo villaggio in mezzo alla foresta ed era partito su una piccola slitta trainata da quattro cani, che i genitori con gli ultimi risparmi gli avevano donato come sua eredità. Si era incamminato alla scoperta di un luogo più colorato, dove sognava di trovare amici di tutte le stirpi e sperava di vivere, almeno sei mesi l’anno, in giorni brevissimi e notti lunghe.
Igor aveva letto di un posto, che si chiamava Nordkapp, dove nel 1989 era stato eretto il monumento “Bambini della Terra”, concepito da sette bambini di sette diversi paesi del mondo, come simbolo di amicizia, cooperazione, gioia e speranza. Il monumento, detto anche “Figlio della Terra”, era formato da sette medaglioni realizzati in pietra, che raffiguravano disegni prodotti da sette bambini di nazionalità diverse. Aveva sognato di vivere a Capo Nord, convinto che lì sarebbe stato possibile superare le differenze, oltrepassare ogni confine, superare le divisioni tra gli abitanti del mondo, vincere gli odi tra le specie e condurre un’esistenza serena.
Sapeva di avventurarsi verso un destino incerto, ma voleva esplorare il mondo, voleva trovare amici che vivevano di giorno e la notte dormivano, per farsi raccontare da loro il colore della luce.
Nel lungo viaggio, durante una notte tempestosa, i quattro cani, mentre si stringevano forte l’uno all’altro per proteggersi dalle folate invernali, erano scomparsi. Tante volte Igor si era chiesto se vivevano liberi da qualche parte o se la morte li avesse portati via con il suo abbraccio dorato. Lui si era salvato rifugiandosi nella grotta dove un’orsa custodiva, al riparo dalle intemperie, i suoi cuccioli in letargo.
Ogni volta, al risveglio, esclama: “Io sono Igor, sono un troll buono, non posso uscire di giorno, non posso giocare a pallone con gli altri ragazzi. So che esiste il colore giallo, i miei nonni dicevano che è simile al colore della luce e che per un pittore dipingere il colore della luce è una delle sfide più difficili. I troll non possono stare alla luce, per questo io non ho mai potuto guardare, né conoscere la luce del sole. Al mio paese mi dicevano che i raggi mi avrebbero sciolto o mi avrebbero trasformato in pietra. Sono condannato a nascondermi nella tundra tutti i giorni”.
“Solo nel buio della notte posso uscire, quando tutti gli altri dormono; per questo, dopo un anno che sono arrivato qui, non ho trovato un amico”.
Si lamenta Igor e si dispera, nella notte fredda e silenziosa, per la triste sorte, che lo condanna al buio e alla solitudine. I suoi occhi bruciano di pianto.
Dopo la notte arriva il giorno e con esso la luce che illumina le città, il ghiaccio, i paesaggi innevati, e Igor deve cercare un rifugio per proteggersi dalla luce. Il suo destino sembra essere la solitudine, perché da quando è arrivato non ha trovato un amico con cui parlare e non sa ancora come sono fatti la luce, il volto del sole e il monumento “Figli della Terra”.
Anche quella notte, quando il sole scompare e scendono le tenebre Igor esce dal suo rifugio sottoterra e si incammina alla ricerca di amici. Fuori il buio colora di piombo anche la neve, che continua a scendere. Si ascoltano lo stormire lieve di ramoscelli di alberi nani, gli abbracci degli aghi del pino mossi dal vento, lo scricchiolio della vegetazione sotto i piedi. In alto si odono rari sbattere d’ali. Ululati di lupi rimbombano in lontananza.
Per Igor il buio ha il colore della solitudine. I fiocchi cadono e via via coprono il tragitto. Sono grandi, diventano sempre più fitti e, se solo rallenta l’andatura, lo ricoprono. Lui continua a correre alla ricerca di un amico, non ha paura del gelo, né della fame. Si ferma in prossimità di un dosso; gli alberi si scrollano il fardello di neve, danzano al carillon del vento, come vecchi amici si abbracciano, si salutano e si stringono con centinaia di mani. Poi tornano ad essere alberi, con le piccole chiome tempestose e le radici nel terreno, che ospitano esseri in cerca di protezione.
La camminata è lunga e faticosa. Igor attraversa strade innevate e piazze deserte, cariche di silenzio. Vede in lontananza qualcuno che si muove, teme di confonderlo con un albero, affretta il passo. Lancia un sasso e scorge un animale; corre per raggiungerlo. Quando si avvicina capisce che si tratta di una volpe artica. La rincorre, ma ogni volta che prova ad accarezzarla la volpe scappa veloce. Adagio, per non spaventarla, gli va incontro, la chiama con voce suadente, si affianca a lei e la osserva di nascosto. Finalmente, forse perché stanca o perché ha capito che non vuole catturarla la volpe si ferma. Igor la scruta con attenzione: ha gli occhi miti, ma un po’ tristi e impauriti, il pelo argentato; è ancora giovane. Piano piano acquista confidenza, gli avvicina il muso divenuto tranquillo sulle gambe, come per annusarlo.
Igor finalmente fa la sua richiesta: “Cara Volpe, sono tanto stanco di vivere da solo. Mi hanno detto che il sole è un pericolo per me e posso uscire all’aperto solo di notte, quando è buio. Sono l’unico della mia specie nel comune di Nordkapp. Ho abbandonato il mio paese, la mia famiglia, la mia specie per conoscere ed esplorare il mondo, per cercare amici che mi possano far vivere in amicizia, gioia e pace. Cerco un essere vivente che mi racconti come si vive di giorno, al quale io possa fare del bene e dal quale possa riceverne, con il quale condividere emozioni felici e tristi”.
“Non ti posso aiutare Igor – risponde la volpe – il mio cuore ha smesso di battere una settimana fa, nei giorni della grande nevicata, che ha ucciso i miei figli. La neve, che scendeva fitta dal cielo, ha coperto tutto. Non si trovava più nulla da mangiare. Il mio muso stanco non aveva più la forza di scavare sotto la tundra per cercare gli ultimi animali morti o i chicchi di semi rimasti. Gli uomini erano occupati a gettare sale per potersi spostare con le macchine e rifornirsi di viveri. Noi volpi non mangiamo il sale e nessuno ci ha rifornito di viveri. La neve scendeva sempre, per giorni, i miei figli sono molto dimagriti, poi sono morti di fame. Non ho voglia di conoscere estranei, torna a casa, dai tuoi parenti, solo lì potrai sentirti meno solo”.
“Non ho parenti, sono solo in questo paese. Inoltre non ho i cani né una slitta da far trainare. Se qualcuno mi fornisse cani e slitta, non saprei dove indirizzare la loro guida, né trovare la strada per ritornare al paese dei troll buoni dove sono nato”.
“Non ti posso aiutare, mi dispiace. Io non conosco i troll, né quelli buoni né quelli cattivi, non ci ho mai parlato. Noi volpi stiamo bene dove ci sono altre volpi. Ogni essere sta bene con i suoi simili. Hai sbagliato ad andartene. Di giorno si vive come di notte, gli esseri sono gli stessi, a metà buoni a metà cattivi. Mi pare semplice, no?”.
Igor, piangendo si allontana. Non sarà facile per lui incontrare un amico che lo possa capire e lo possa ascoltare. Pensa che si sta avvicinando l’alba e prima che sorga il sole deve trovare un rifugio. Si rallegra solo che a Capo Nord, nel lungo inverno, i giorni sono brevissimi e il tempo da trascorrere sottoterra è poco.
Vede in lontananza l’ingresso di una piccola incavatura vicino ad un arbusto nano e si dirige lì. Si ripara dal freddo con la corteccia, poi, ammutolito e triste, sporge la testa, e da lì dentro ammira con malinconia il paesaggio innevato, muto e deserto. Scava una grotta più profonda dove poter entrare per trascorrere il giorno. Mentre è intento a raccogliere i licheni per allestire un materasso dove sdraiarsi, una grande ombra si avvicina alle sue spalle.
Igor si gira di scatto e vede un grande orso bianco che si avvicina. Più che la paura è la solitudine che gli fa ascoltare la sua stessa voce, mentre come in un ritornello, domanda: “Sono Igor, un troll buono, vuoi essere mio amico grande Orso?”. L’orso bianco ansima e si avvicina con fare minaccioso, poi esclama: “Ho fame! La bufera, il vento e la neve hanno coperto tutto, non ho trovato del cibo per sfamarmi, né per sfamare i miei piccoli. Non posso stare qui a parlare di amicizia con un estraneo mentre cerco qualcosa da sbranare e i miei amici soffrono per la fame. Nessuno gira in questa notte, tu sei l’ultima possibilità per sfamarmi”. Mentre parla l’orso bianco si avvicina in modo spaventoso, allarga la mandibola e dalla bocca cominciano a scendere gocciole di saliva. Solleva minaccioso la grossa zampa bianca, alza gli artigli affilati e li avvicina al viso del giovane troll.
Igor è atterrito all’idea che il suo corpo possa finire in pasto a un orso famelico, sotto lo sguardo inerme di un cielo sgomento, senza stelle e senza luna. Possibile che questo possa essere il suo destino? Per rincuorarsi pensa che nessuno ha mai affermato con certezza l’esistenza del destino, né per gli esseri umani, né per altre specie. Inoltre, lui personalmente, non aveva mai creduto nel destino.
Mentre fra sé e sé fa queste riflessioni, Igor in un baleno fugge dentro la grotta, allontanandosi dal predatore, che comincia a grattare sull’ingresso per afferrare la preda. Trema di paura e l’idea che un orso gigante affamato potesse stanarlo e sfamarsi di lui, lo terrorizza. Le zampe si avvicinano sempre di più, mentre cerca di rannicchiarsi il più lontano possibile dentro la piccola grotta che fortunatamente aveva scavato con cura, rendendola ancora più profonda.
Solo dopo alcuni minuti, che sembrano interminabili, i colpi lentamente si diradano e poi smettono. Igor, tremando si affaccia e sbircia tra la neve l’orso che rincorre qualcosa che si muove.
Finalmente l’orso si è allontanato.
Rassicurato, Igor può infilarsi sotto la coperta di corteccia e sognare.