Le donne vivono più a lungo degli uomini, ma lo fanno in condizioni peggiori. Hanno più probabilità di ammalarsi, soffrono per una “medicina di genere” non ancora diffusa e la qualità della loro vita è generalmente meno soddisfacente.
Da non credere, ma con la legge 3/2018 l’Italia è stata il primo Paese in Europa a formalizzare l’inserimento del concetto di “genere” in medicina. Non solo, il 13 giugno 2019, il Ministero della Salute ha approvato il Piano per l’applicazione e la diffusione della medicina di genere sul territorio nazionale. Un piano che dovrebbe «garantire a ogni persona la cura migliore, rispettando le differenze e arrivando a un’effettiva “personalizzazione delle terapie”».
Per una “medicina di genere” che tuteli la salute delle donne
Questo seguendo alcuni principi fondamentali, riportati dal portale dell’Istituto Superiore di Sanità. In primis il rapportare medicina e scienze umane per permettere che ricerca, prevenzione, diagnosi e cura tengano conto delle differenze di genere. Poi il promuovere una ricerca biomedica, farmacologica e psico-sociale basata su quelle differenze. Inoltre il sostenere l’insegnamento della medicina di genere, per offrire livelli di formazione e di aggiornamento adeguati al personale medico e sanitario, e allo stesso modo il favorire un’informazione pubblica sulla salute e sulla gestione delle malattie mirata a sostenere la medicina di genere.
Bernardine Patricia Healy e Margaret Chan
Finalmente una risposta efficace alla domanda provocatoria che, nei primi anni Novanta, la cardiologa e ricercatrice Bernardine Patricia Healy, lanciò alla comunità medica: «Le donne devono vestirsi da uomo per poter essere curate dai medici?» E alle valutazioni e ricerche che effettuò una volta promossa direttrice dei National Institutes of Health statunitensi, dimostrando che la ricerca scientifica era condotta soltanto sugli uomini e sugli animali maschi, così come le procedure diagnostiche e terapeutiche.
Durante i dieci anni del suo doppio mandato come direttrice generale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, terminato nel 2017, la dottoressa Margaret Chan sostenne costantemente che, per misurare il livello di civiltà, democrazia, benessere e sviluppo di un Paese, bisogna analizzare lo stato di salute e soddisfazione delle donne. In Italia se n’è occupata l’Istat che con l’indagine Aspetti della Vita Quotidiana ha rilevato la soddisfazione per le condizioni di vita dei cittadini attraverso una pluralità di indicatori. Nel 2023 gli uomini si sono dichiarati più soddisfatti per le personali condizioni di vita rispetto alle donne: 48,7% contro il 44,8%. E anche per l’impiego del proprio tempo libero, il 70,2% contro 66,2%.
Aspettative di vita e insoddisfazione
Eppure è risaputo che le donne hanno un’aspettativa di vita più prolungata. In Italia l’ultima valutazione Istat la vedeva di 4,1 anni più duratura di quella degli uomini. Un dato che però era accompagnato da quello che indicava la previsione di godere di buona salute ridotta a 57, 9 anni per le donne contro i 60, 5 per gli uomini. Se l’insoddisfazione è causata sia da un minore riconoscimento in ambito lavorativo, sia dalle difficoltà per il sovrapporsi di lavoro, impegno per la casa, per la prole e per gli anziani, la differenza di qualità della vita a svantaggio delle donne si manifesta a tutte le età, come è stato constatato nel 2023. Con un’aspettativa di buona salute inferiore di quasi sette anni, considerata la maggiore longevità, rispetto a quella degli uomini.
Una tradizione da combattere
A cinque anni dalla legge sulla medicina di genere non sembra le donne abbiano la percezione di un’attenzione nei loro confronti corretta in meglio da parte delle strutture sanitarie. E continuano a curarsi meno, spesso perché culturalmente e per tradizione soggette all’idea del sacrificio e della sopportazione, specie quando assumono la responsabilità di curare i figli e/o dei parenti non autosufficienti (le caregiver familiari sono quasi tre milioni, secondo l’Istituto Superiore di Sanità).
Vivono uno stress continuo, trascurano vita sociale e salute, si sentono ignorate, spesso anche inefficaci, subiscono ancora una medicalizzazione di sistema inadeguata. Perciò sono sempre le prime a procrastinare e procrastinare, se non proprio a rinunciare alle cure, quando sono messe di fronte ai tempi infiniti delle prenotazioni delle prestazioni mediche offerte dal Servizio Sanitario Nazionale. Specie se appartengono a quel 65,6 % di persone con redditi bassi, che non possono permettersi di rivolgersi alla sanità a pagamento.
© Riproduzione riservata