Il nastro rosa è incompleto. Manca un pezzetto nella parte finale. Un tassello grigio che può essere colmato con il contributo di ognuno di noi. È questo il significato del simbolo scelto dall’Airc per la campagna internazionale sul tumore al seno che prevede una serie di iniziative nel mese di ottobre. Completare quel nastro significa raggiungere l’obiettivo principale della ricerca: ottenere un concreto risultato di cura per tutte. Perché grazie ai progressi della medicina la sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi oggi è aumentata fino all’87%, ma non ci si può fermare qui.
Ne è convinta anche Sabrina Paravicini, autrice, regista e attrice (ha interpretato l’infermiera Jessica nelle prime stagioni della serie tv Un medico in famiglia), che quest’anno sostiene la campagna dell’Airc. Sì, perché lei la malattia l’ha sperimentata sulla sua pelle. Alla diagnosi di tumore al seno – arrivata a febbraio 2019 – sono seguite le sedute di chemio e radioterapia, un intervento chirurgico, Tac, mammografie, la terapia di mantenimento.
E, oltre alle cicatrici del corpo, ci sono state anche quelle dell’anima. Sabrina, infatti, non ha affrontato solo la perdita di capelli e di peso. Ad un tratto ha perso anche la speranza. Ma in seguito l’ha ritrovata e ha avuto voglia di condividere la sua storia prima su Instagram (117mila follower) e poi in un libro appena uscito per Sperling&Kupfer, Fino a qui tutto bene. Un viaggio difficile ma straordinario (vedi box sotto). Ha avuto voglia, insomma, di fare il possibile per parlare senza tabù di una malattia che solo nel 2019 in Italia ha registrato 53mila nuove diagnosi.
È così, raccontando la sua esperienza e quella delle persone che ha incontrato, che Sabrina contribuisce a completare il nastro rosa di Airc, simbolo di una ricerca che non si ferma. Abbiamo voluto ascoltare anche noi dalla sua voce, dolce e pacata, la storia del suo viaggio straordinario.
Una scelta coraggiosa quella di rendere pubblica una sofferenza. Cosa l’ha spinta a farlo?
Non l’ho fatto subito. All’inizio anzi avevo scelto di non dire nulla. Non volevo che la malattia, spesso vista come una cosa mostruosa e del tutto invalidante si affiancasse a una fase molto intensa della mia vita lavorativa: stavo promuovendo in giro per l’Italia un mio film documentario e il libro legato a questo film. Ci tenevo a portare a termine gli impegni. Andavo nei cinema con la parrucca. Mio figlio Nino mi diceva sorridendo: «Guarda che ora ti tolgo la parrucca…». Forse era il suo modo per dire: parliamone con gli altri. La diagnosi l’ho ricevuta a febbraio 2019. Ho fatto in tempo a marzo a promuovere il documentario che avevo girato con mio figlio (Be Kind, un documentario sulla diversità che ha come protagonista il figlio di Sabrina affetto dalla sindrome di Asperger, Ndr) e poi a maggio ho fatto coming out sui Social.
Suo figlio però già sapeva tutto?
Certo. Chi fa la chemioterapia ha poche possibilità di nascondere a chi gli sta vicino che sta male. I suoi effetti sono devastanti. Non puoi fingere.
Cosa ha voluto raccontare della sua esperienza?
Ho voluto riportare quello che mi raccontavano le persone che ho incontrato, i miei “amici di chemio”. Mi sembrava giusto far sapere a tutti che quel che generalmente si pensa dei malati di cancro nella maggior parte dei casi non è vero. Ci si immagina un mondo di persone fragili. Io invece ho incontrato persone molto forti. Persone che mi hanno fatto cambiare la prospettiva da cui guardare le cose. E se all’inizio pensavo di essere io la malata grave, poi ho incontrato persone più gravi di me che dovevano affrontare percorsi terapeutici molto più lunghi, in alcuni casi anche per tutta la vita e che, nonostante tutto, continuavano a lottare con determinazione. Ho pensato che quelle storie che avevamo condiviso in una saletta di ospedale tra cinque persone al massimo meritassero di essere conosciute da un pubblico più vasto e così le ho trasferite sui Social. In poco tempo sono passata da 3mila follower a più di 100mila, non immaginavo tanto consenso su un tema così delicato, invece si è creata una comunità di belle persone piene di forza ed energia con cui è un privilegio poter condividere quel che mi accade, anche ora che mi trovo nella fase di follow-up, una fase delicata in cui ci si sente fragili perché non si hanno ancora certezze.
Con la pandemia ci siamo tutti resi conto di quanto sia importante avere un sistema sanitario pubblico efficiente. Ma chi ha avuto una malattia come la sua, lo aveva probabilmente già capito. Non è così?
È chiaro che sapere di poter contare su un sistema sanitario pubblico in grado di offrirti una cura che avrebbe un costo elevatissimo è un grande vantaggio che ha l’Italia rispetto ad altri Paesi. Io ho utilizzato per un anno un farmaco costosissimo che non mi sarei potuta permettere se non fosse stato a carico del servizio pubblico. Anche mio figlio dalla diagnosi di autismo in poi è stato seguito da strutture pubbliche. Al di là dell’aspetto economico penso sia fondamentale sapere che chi si prende cura di te non lo fa per guadagnarci.
Nel suo percorso terapeutico ha percepito l’importanza della ricerca scientifica? La scelta di sostenere AIRC deriva anche dalla sua personale esperienza?
La mia terapia è frutto di progressi molto recenti. Quattro anni fa il mio tipo di tumore, Her2 positivo, non avrebbe avuto lo stesso trattamento. Oggi le donne con la mia stessa patologia ricevono per un anno dopo la chemioterapia un farmaco chiamato Trastuzumab, un anticorpo monoclonale che previene le recidive. Una mia amica con una metastasi al fegato è curata con l’immunoterapia, un’altra conquista della medicina che ha ottenuto risultati fino a poco fa insperati. La ricerca è fondamentale.
Come è cambiato il rapporto con il suo corpo?
Lo racconto anche nel mio libro. È strano, ma mano a mano che vedevo il mio corpo più “brutto” e sofferente mi volevo sempre più bene. È come se finalmente a 50 anni avessi imparato ad apprezzarmi per quel che realmente ero e non per quel che volevo essere. L’anno scorso in pieno periodo di chemio sono stata chiamata a far parte di una giuria. Ho accettato l’invito. Sono salita sul palco presentandomi così, senza sopracciglia, con le gambe gonfie e un’andatura incerta. Non ho voluto fingermi diversa da quella che ero. È stato liberatorio. E ho ricevuto molti messaggi di solidarietà e di stima da parte di donne che faticano a mostrare i cambiamenti del corpo causati dalla malattia. Ora che sto meglio nelle occasioni pubbliche ho ripreso anche a mettermi i tacchi.
Come è andata? Si riesce a risalire su un tacco 12 dopo tanto tempo passato con le scarpe basse?
Non so se la scienza lo ha mai appurato, ma credo che noi donne abbiamo una memoria genetica che ci impedisce di dimenticare come si cammina sui tacchi. È andata bene, come se non avessi mai smesso. È anche vero che oramai mi sto disintossicando e gli effetti collaterali della terapia tra cui la difficoltà di equilibrio e le neuropatie si stanno riducendo molto.
Dalla chemioterapia è passata direttamente al lockdown. Che effetto ha avuto su di lei quel periodo tanto strano per tutti noi?
La cosa positiva è che non ho mai dovuto saltare un appuntamento per la terapia. Anche se ero legittimata a uscire di casa per andare a curarmi, mi sentivo comunque una clandestina. La sala d’attesa era vuota e mancava quell’atmosfera quasi conviviale delle sedute precedenti. Tutto molto surreale.
Un bilancio dalla diagnosi a oggi?
Non cambierei quest’ultimo anno e mezzo per niente al mondo. Nonostante la paura della morte, non ho mai sperimentato tanta vitalità e gioia in tutta la mia vita. È paradossale ma combattendo contro la malattia si toccano picchi di felicità davvero unici. Perché ci si apre agli altri in maniera totalmente trasparente senza filtri, senza sovrastrutture. Sei esattamente tu, così come sei. Spero di non perdere mai più questa caratteristica.
Progetti per il futuro?
Tra poco uscirà il mio documentario “B33”, come il numero che mi hanno assegnato al primo trattamento. È un viaggio nella malattia e nella cura. Bisognerà occuparsi della distribuzione, della promozione, ci saranno proiezioni nelle scuole. Insomma, c’è tanto da fare. Si può ritornare alla vita precedente e questa è una grande emozione.
“Fino a qui tutto bene. Un viaggio difficile, ma straordinario”: una storia di riscatto e di amore
«Se mi devono dire che ho un cancro devo essere bellissima». Questo ha pensato più di un anno fa Sabrina Paravicini mentre si preparava per andare a ritirare il responso della biopsia. Ma quel 5 febbraio 2019 la risposta è stata inesorabile, affilata come una lama di coltello: tumore maligno. Per tre giorni Sabrina Paravicini ha celato i suoi sentimenti, piangendo di nascosto. Ma è stato lo sguardo triste di suo figlio Nino a spronarla a combattere, iniziando un lungo e intenso percorso per sconfiggere il male che aveva dentro.
Poteva essere un viaggio colmo solo di dolore, paura e sconforto. Invece, Sabrina Paravicini è riuscita a viverlo anche con molto altro: accanto alla sofferenza delle terapie, ci sono state piccole e grandi gioie. Oltre all’amore per suo figlio e ad una profonda comprensione di sé, si sono palesate nuove e bellissime amicizie in grado di far svanire il timore di affrontare tutto da sola. La premura con cui i medici e gli infermieri si sono presi cura di lei ha cancellato l’angoscia per l’incertezza del domani. Nel libro racconta quanto ha affrontato in un anno e mezzo di terapie, non nasconde mai il dolore, lascia aperta la porta alla speranza. Alla fine è una storia di riscatto e di amore, ma soprattutto che porta con sé un messaggio importante per chi si trova ad affrontare questo male: non sei sola.
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