Le Residenze sanitarie assistite rappresentano un punto di riferimento per coloro che necessitano di assistenza continua, laddove l’aiuto della famiglia non è sufficiente. Spesso bersaglio di critiche, anche in tempo di pandemia, sono invece strutture che, con i dovuti interventi, possono divenire centri globali di servizi alla persona
L’emergenza Covid ha riportato all’attenzione pubblica il tema delle Residenze sanitarie assistite, le Rsa, per i numeri sui decessi e i contagi fra gli ospiti, ma ha anche contribuito ad aprire un dibattito sul futuro dei sistemi di cura e assistenza per i senior in Italia.
La domanda di servizi sociosanitari e la relativa spesa pubblica e privata sono infatti destinate ad aumentare nei prossimi anni, soprattutto nel campo della cura continuativa, data la crescente percentuale di popolazione over 80 e l’aumento di famiglie mononucleari, ossia di persone che vivono da sole, con conseguente azzeramento della possibilità di assistenza da parte dei familiari.
In Italia sono oggi disponibili circa 240mila posti letto fra strutture residenziali e semiresidenziali, ai quali si aggiungono i servizi di assistenza domiciliare erogati a oltre 520mila anziani. Numeri insufficienti se si pensa che oggi le persone che necessitano di aiuto sono oltre tre milioni e 500mila, con una crescita del 25% dal 2008, e che in maggioranza si tratta di over 65 (80,8%).
Un mondo, quello dei servizi alla persona, spesso poco conosciuto nonostante i bisogni crescenti, che spesso lavora in sordina e torna agli onori delle cronache solo nei casi di cattiva gestione, o di emergenza, come accaduto negli ultimi mesi.
«Per le Rsa e i Servizi alle persone fragili abbiamo visto consumarsi un dramma – si legge in una dichiarazione di Sergio Sgubin, presidente Ansdipp, Associazione dei manager del sociale e sociosanitario -, tanto che in moltissimi casi si sta vivendo ancora la Fase 1. Ora si conoscono queste strutture, quelle che paradossalmente avrebbero dovuto essere protette per prime e anticipatamente dal virus. Ovviamente non diciamo che errori non ne sono stati fatti anche da parte di alcune direzioni, ma solo di questo si è parlato, e molte notizie ad effetto su indagini dimostrano solo il teatrino della politica e delle contraddizioni».
Dottor Sgubin, cosa non ha funzionato, dunque?
Diciamo che dal punto di vista della sicurezza i dispositivi di protezione individuale e la formazione sul campo dovrebbero essere la norma a prescindere dalle emergenze, ma ci sono enti gestori o proprietari che in molti casi non hanno potenziato questi aspetti. Quindi dove già c’era un po’ di scarsità la situazione si è rivelata più critica. D’altra parte in questo periodo le procedure sono state ormai ottimizzate per tutti e oggi si può dire sia stata raggiunta una condizione di garanzia sotto questo aspetto.
Ha dichiarato che le Rsa sono diventate il capro espiatorio di una serie di errori delle istituzioni nazionali, regionali e sanitarie.
Qualche caso di non adeguatezza c’è stato, ma la maggioranza delle strutture ha cercato di far fronte all’emergenza e ha tenuto bene, anche quando è stata colpita direttamente dal Covid. Il problema del capro espiatorio è che ci sono state delle lacune enormi sia a livello nazionale che regionale e di Ats: nessuna di queste istituzioni ha fornito indicazioni chiare per due mesi rispetto a questo problema che, per la stragrande maggioranza, ha colpito proprio gli anziani, e dunque per assurdo si è abbandonato proprio il settore dove sono concentrati la maggior parte di soggetti deboli e non autosufficienti. A livello di prevenzione si sarebbe potuto fare tantissimo. Faccio un esempio: sono state chiuse le scuole, ma sono state fatte difficoltà per chiudere al pubblico le Rsa. Non è un paradosso?
Quante realtà sono state lasciate alla disperazione, salvo poi andare a verificare con le ispezioni, con due mesi di ritardo, se abbiano o meno agito correttamente? Spesso ai vertici non si sa di cosa si parla, in ogni caso bisogna ripartire dalle persone, rimetterle al centro del dibattito.
Le Rsa sono da ripensare? Possono essere un modello vincente anche per l’assistenza del prossimo futuro?
Le Rsa e i centri di servizio alla persona sono ormai dei poli con assistenza domiciliare e altre attività integrate con il territorio, lavorano in rete, a volte gestiscono anche asili nido, centri diurni, ed è questo il mondo di riferimento al quale ci rivolgiamo. Purtroppo c’è anche una scarsa conoscenza rispetto a quello che è il pianeta dei centri per anziani, perché se ne parla solo nei casi di cronaca delle strutture lager, si parla ancora di ospizi, parola oramai anacronistica, e si raccontano solo le eccezioni negative rispetto ad un settore dove in tutta Italia possiamo vantare buone pratiche e risorse eccezionali.
Noi pensiamo che le Rsa, dove già non lo sono, possano e debbano diventare un centro di servizi globale alla persona: approfittiamo di questo momento in cui il tema è stato toccato, nel bene e nel male, per affrontare il tema in modo diverso. Non vogliamo diventare ospedali di serie B di lungodegenza geriatrica, ma essere strutture residenziali di serie A e in alcuni casi lo siamo già. Per noi la cura della persona va oltre la parte sanitaria e assistenziale, ma è anche emotiva, educativa, sociale, di progetti. Il mondo sociosanitario non è quello sanitario.
Ci sono casi in Italia di progetti intergenerazionali settimanali con attività didattiche, collaborazioni con musei e gallerie d’arte. Noi vorremmo spingere sulle strutture affinché quelle che sono in grado facciano sempre più attività, e le piccole realtà si mettano in rete, per aggregarsi ai progetti e ragionare su tutto il sistema di cura, che passa anche da quella domiciliare, delle residenze protette, dalla medicina di base e dal cambiamento del concetto culturale di “cura”. L’integrazione che deve essere realizzata può mettere le Rsa al centro di un sistema di servizi su cui far ruotare la rete territoriale. Il compito dell’ente pubblico dovrà essere quello di controllo degli standard di qualità e del funzionamento delle collaborazioni che si attiveranno sul territorio.
Quali sono le cose che dovrebbero cambiare per andare in questa direzione?
Ci sono una serie di incongruenze che vorremmo far emergere, non come critica ma come proposta. Per fare un esempio, un paziente ricoverato in ospedale costa fra i 500 e i 600 euro al giorno al Servizio Sanitario Nazionale, mentre ad una Rsa in Lombardia vengono dati 50 euro al giorno per ogni ospite. Se solo si spostasse una piccola percentuale dei fondi nazionali e regionali sul mondo sociosanitario si potrebbe aumentare la quota sanitaria di accreditamento sulle strutture che non è adeguata ai livelli elementari di assistenza e che ora ha un peso maggiore sulle rette. Abbiamo fatto studi importanti in collaborazione con l’Università Bocconi e il Politecnico di Milano sulla necessità crescente di assistenza per gli over 75 nei prossimi trent’anni, quindi un salto di qualità complessivo va fatto ed è questo il momento di ragionarci.
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