La grave situazione che ha coinvolto le strutture residenziali assistenziali in tre regioni italiane, durante la prima fase dell’emergenza Covid, è finita sotto la lente di Amnesty International, l’organizzazione internazionale che si occupa di diritti umani. Lentezza nella risposta alla crisi, carenze strutturali di personale e nuove forme di isolamento anti contagio sono fra le criticità riscontrate.
L’impatto drammatico del Covid-19 sulle strutture di residenza sociosanitarie e socioassistenziali, dall’inizio della pandemia, ha spinto Amnesty International Italia a ricostruire quanto sia accaduto dietro a quei numeri spropositati di contagi, e purtroppo di decessi, fra gli ospiti delle Rsa.
Attraverso oltre 80 testimonianze raccolte tra i familiari dei residenti in struttura, il personale dirigenziale, gli operatori sanitari e i membri delle associazioni di rappresentanza delle categorie professionali di settore, oltre ai dati resi disponibili da fonti Istat e da alcune Aziende sanitarie territoriali, l’organizzazione ha potuto constatare quanto la risposta delle istituzioni all’emergenza sia stata lenta, spesso inadeguata e costellata di errori. Il documento che ne è nato è il Rapporto Abbandonati, che si concentra su tre regioni italiane, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, esaminandone i numeri, il contesto, la risposta al virus in termini di prevenzione, controllo, disponibilità di dispositivi di protezione, oltre alle criticità endemiche di alcune strutture, soprattutto a livello occupazionale, e alle conseguenze sugli ospiti del prolungato isolamento dal mondo esterno come strumento per contenere i contagi.
«Amnesty è nota per occuparsi di diritti civili e politici, ma negli ultimi anni sta seguendo anche quelli economici e sociali fra i quali il diritto alla salute – ha spiegato a 50&Più Debora Del Pistoia, campaigner di Amnesty International Italia e fra i curatori del Rapporto -, perciò, nel 2020, quando è stato evidente che la pandemia aveva colpito bruscamente Paesi europei dove finora ci si era concentrati di meno, abbiamo deciso di dedicare la nostra attenzione alle strutture socioassistenziali, perché è emerso con chiarezza che proprio in questi luoghi “fragili” sono stati messi in discussione i diritti fondamentali alla vita, alla salute, alla non discriminazione, a non essere sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, e al rispetto alla vita privata e familiare».
Il Rapporto Abbandonati è parte di una ricerca più ampia condotta a livello europeo: quali sono le specificità italiane rispetto agli altri Paesi e quali i risultati comuni?
Il Rapporto presenta i risultati di un’attività di ricerca condotta tra luglio e dicembre 2020 sulla situazione delle residenze socioassistenziali in Inghilterra, Spagna, Belgio e Italia. I quattro Paesi hanno condizioni totalmente diverse quanto ad autorità di governance e controllo sulle strutture, ma in tutti abbiamo riscontrato le stesse criticità che precedevano l’avvento della pandemia, rispetto a standard qualitativi e quantitativi dell’assistenza, come il minutaggio che regola il tempo dell’operatore dedicato al paziente, oltre alle questioni legate all’occupazione che sono le più spinose. Con l’emergenza Covid il settore è poi ulteriormente passato in secondo piano rispetto a quello ospedaliero nelle realtà europee che abbiamo preso in esame. In Italia, a differenza degli altri Paesi, mancano alcuni dati cruciali che impediscono una lettura globale del fenomeno e del suo impatto.
Perché nella Ricerca vi siete concentrati su tre Regioni in particolare? E quali dati mancano per avere il quadro completo della situazione?
Il Rapporto si è focalizzato su tre Regioni emblematiche per numero di contagi e vittime riscontrate durante la prima ondata, sia in generale sia fra la popolazione anziana presente all’interno delle Rsa: Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. In Lombardia, considerando il periodo compreso fra gennaio e maggio, i decessi totali per Covid-19 sono stati oltre 16mila, dei quali ben 3.139 nelle residenze assistite (dati Istat), in pratica una persona su cinque. In Emilia Romagna il 25% delle 4.081 vittime del Covid, registrate entro il 3 giugno scorso, ha riguardato persone che vivevano nelle Rsa (1.032); in Veneto, dove sono disponibili dati più recenti e completi rispetto alle altre due Regioni, le vittime di Covid residenti nelle strutture socioassistenziali assistite nel periodo compreso tra febbraio e novembre sono state 1.120, su un totale di 2.642, pari al 24% del totale regionale.
Abbiamo anche analizzato due casi-studio in particolare: Bergamo, che ha avuto un tasso di mortalità del 702% nelle Rsa, e Milano, che si è attestata al 270%, da quanto è emerso incrociando i dati Istat e Agenzia di tutela della salute Città Metropolitana, dal primo marzo al 30 aprile. Se teniamo conto che nelle Rsa i tamponi sono iniziati molto più tardi rispetto, ad esempio, agli ospedali, e che il dato non era disaggregato fino alla fine di maggio, è facile intuire quanto questi numeri, seppure elevatissimi, siano sottostimati. Come dicevo, non abbiamo una fotografia chiara della mortalità nelle strutture di tutte le Regioni perché non esistono dati raccolti organicamente a livello nazionale. Altro dato cruciale mancante è quello sugli operatori sanitari di Rsa deceduti a causa del Covid, perché gli unici numeri che vengono rilasciati sono quelli delle associazioni di categoria di medici e infermieri, che però non sono disaggregati sulla base del luogo di lavoro. Per gli operatori sociosanitari, gli Oss, non esiste nemmeno una categoria professionale di riferimento e dunque la ricerca è ancora più complicata.
Nel Rapporto un intero capitolo è dedicato al contesto italiano: c’erano delle criticità già presenti prima della pandemia?
A fronte di una popolazione anziana che è numericamente la più alta d’Europa, ci si scontra con uno dei livelli più bassi di disponibilità di posti letto in strutture socioassistenziali assistite, peraltro con una distribuzione disomogenea fra Nord e Sud. Senza significative differenze tra strutture pubbliche e private, sono state evidenziati diversi problemi, uno dei quali è rappresentato certamente dalla cronica carenza di personale che a tutt’oggi resta irrisolta. In particolare, in Lombardia ed Emilia Romagna è frequente il ricorso a liberi professionisti e somministrati, che includono lavoratori delle cooperative e interinali, spesso soggetti a condizioni contrattuali al ribasso. Questa mancanza endemica di personale, oggi ancora più gravato da nuove mansioni, ha inciso sulla qualità di vita degli ospiti, che dalla prima fase della pandemia hanno subìto una condizione di isolamento con il blocco alle visite dei familiari, prima in grado di contribuire alla cura della persona e al suo benessere psicofisico.
La questione del blocco delle visite è cruciale perché le misure di contenimento del contagio, che hanno limitato quasi sempre al virtuale il contatto con l’esterno, hanno avuto un impatto forte sui residenti delle Rsa. Quali elementi avete raccolto in merito?
Amnesty ha rilevato che, nonostante le buone pratiche messe in campo da alcune strutture per favorire la ripresa degli incontri con il mondo esterno, nella maggior parte delle realtà è stato ritenuto più sicuro mantenere una politica di chiusura, e solo in pochi hanno utilizzato, ad esempio, i tamponi rapidi come strumento finalizzato alla riapertura in sicurezza. L’impatto sulla salute è stato negativo, in particolare per gli ospiti affetti da deficit cognitivi e motori. Abbiamo ricostruito la situazione attraverso testimonianze di personale sanitario, dirigenti, famiglie e associazioni che si occupano dei diritti dei residenti nelle strutture: ci sono stati casi di persone che hanno perso la capacità di deambulare, alcuni hanno avuto cali d’appetito, fino a situazioni limite di denutrizione e disidratazione. Venuto meno il supporto dei familiari all’interno, alcuni aspetti dell’assistenza sono rimasti indietro, e anche in quei casi in cui sono riprese le visite, purtroppo il sistema non ha potuto integrare tutti i pazienti per la difficoltà di garantirne la protezione, penalizzando soprattutto casi di ospiti affetti da Alzheimer. Il tema è ancora attuale perché sono state predisposte nuove chiusure e le famiglie ci hanno più volte segnalato che spesso non riescono ad avere comunicazioni adeguate sui loro cari.
Da ciò la forte raccomandazione di Amnesty Italia alle autorità, di fare in modo che le linee guida per gli accessi mettano al centro l’interesse degli ospiti. Nella prima fase sono stati tutti colti di sorpresa, ma a un anno di distanza è fondamentale che si recuperino gli errori fatti, perché abbiamo ancora Rsa che continuano a denunciare la difficoltà di rapportarsi con le Aziende sanitarie territoriali, che invece dovrebbero supportarle. Noi stessi abbiamo riscontrato una reticenza molto forte nel rilasciare testimonianze a causa del clima intimidatorio che esiste attorno alle strutture: ci sono professionisti che hanno ricevuto provvedimenti disciplinari dopo aver denunciato situazioni di difficoltà. Per questo nel Rapporto abbiamo deciso di conservare l’anonimato di chi ha raccontato la sua esperienza e di menzionare alcuni casi ma non le singole realtà, per porre l’attenzione sulle responsabilità pubbliche: quello che è emerso è che la trasparenza è uno dei temi che in Italia resta cruciale.
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