Durante il Covid molte case di riposo hanno riportato storie di isolamento, solitudine e abbandono. Ora in Italia serve una riforma dell’intero sistema assistenziale e la Commissione ministeriale “per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana” ci sta già lavorando
La strada sembra ormai essere stata tracciata. Non sarà né breve né semplice ma porterà se non all’abolizione, certamente ad un forte ridimensionamento delle Residenze sanitarie assistite (RSA), le più note Case di riposo, che al momento rappresentano, in molte situazioni, le uniche strutture socioassistenziali contemplate nel nostro Paese per gli anziani che non hanno più, per svariati motivi, la possibilità di una semplice e diretta assistenza nella propria abitazione. La parola d’ordine? Domiciliarizzazione e, quindi, de-istituzionalizzazione od ospedalizzazione, fin quando possibile.
A “scoperchiare la pentola” è stato il Covid e le tante morti in istituto di anziani abbandonati al loro destino, se non peggio, morti nella solitudine e nell’isolamento. Storie che in molti casi non potranno mai essere raccontate ma che, con i loro numeri impressionanti, hanno messo sotto gli occhi di opinione pubblica e decisori a vario titolo una realtà che forse andava avanti da fin troppi anni. Oggi sono circa 250mila gli anziani che in Italia vivono nelle circa 7mila residenze censite, cresciute da Nord a Sud, nell’ultimo decennio.
Gli snodi per questa che si presenta come una vera rivoluzione nella gestione di una fase di vita così delicata sono due: il concretizzarsi di una serie di strutture già sperimentate o che iniziano a farsi largo e l’ormai mitico Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), che dovrebbe mettere a disposizione fondi e risorse per dare gambe a questo nuovo sistema. Il tempo per verificare il procedere del progetto sarà l’autunno, con il maturarsi delle varie piste di lavoro e soprattutto con le prime conclusioni dell’attività che sta svolgendo la Commissione ministeriale “per la riforma dell’assistenza sanitaria e sociosanitaria della popolazione anziana”, istituita nel settembre del 2020 dal ministro della Sanità, Roberto Speranza e presieduta da monsignor Vincenzo Paglia, presidente del Pontificio consiglio della Famiglia. Della Commissione, che sta elaborando e raccogliendo proposte ed esperienze, fanno parte illustri personalità del mondo scientifico e sociale.
«I mesi del Covid – ha avuto modo di spiegare lo stesso ministro Speranza – hanno fatto emergere la necessità di un profondo ripensamento delle politiche di assistenza sociosanitaria per la popolazione più anziana. La Commissione aiuterà le Istituzioni ad indagare il fenomeno e a proporre le necessarie ipotesi di riforma». Parole alle quali ha fatto eco monsignor Paglia che, accettando l’incarico, ha dichiarato di ritenere la Commissione «un prezioso strumento per favorire una transizione dalla residenzialità ad una efficace presenza sul territorio attraverso l’assistenza domiciliare, il sostegno alle famiglie e la telemedicina. L’auspicio – ha quindi aggiunto il presule – è che l’Italia, Paese tra i più longevi ed anziani del mondo, possa mostrare un nuovo modello di assistenza sanitaria e sociale che aiuti gli anziani a vivere nelle loro case, nel loro habitat, nel tessuto famigliare e sociale».
Ma quali sono gli strumenti per rendere le RSA solo una sorta di “ultima ratio” e non un deposito-parcheggio di anziani ai quali manca una rete familiare in grado di sostenerli? Le piste di lavoro puntano dritto ad una rete di co-housing, minialloggi protetti, o cosiddetti “condomini solidali” con la presenza di più anziani e “residenze leggere”. Insomma, forme di residenzialità che, pur sostenendo e rinforzando una socialità per chi non ha più nessuno, possa allo stesso tempo assicurare alle persone la sicurezza di presenze garantite. Per quanto riguarda le attuali RSA, al posto di strutture “generaliste” da 200 posti, si punta a realtà con un minor numero di posti letto e in un contesto unitario, diversificate in base alle necessità relative alla “qualità della vita e dell’assistenza” degli ospiti. Da una semplice collaborazione domestica a una presenza sociosanitaria 24 ore al giorno, con presidi specialistici salvavita per persone ad elevata fragilità. Una rete socioassistenziale che venga incontro alle necessità di quel 20-30% di anziani ultra 75enni non autosufficienti che attualmente vive in RSA o in strutture protette.
Anche la tecnologia (telemedicina, teleassistenza, teleriabilitazione, domotica per gli ambienti di vita) potranno essere leve strategiche in grado di riqualificare la rete di cura, assicurando nuovi metodi di gestione ed erogazione dei servizi sociosanitari. Già oggi, in alcune esperienze, servizi territoriali ed équipe multidisciplinari si occupano di sostenere la permanenza a casa di persone anziane e con disabilità (assistenza domiciliare integrata) mentre il modello delle USCA, le Unità Speciali di Continuità Assistenziale per il contrasto alla diffusione del Coronavirus, potranno essere integrate per la “residenzialità leggera” e a servizi on demand per le cronicità.
A spiegarci meglio e ad inquadrare la situazione nel contesto nazionale, Giancarlo Penza, coordinatore del servizio anziani di Sant’Egidio. «In questa battaglia che portiamo avanti da decenni – ci dice – il tema non è stato tanto il sentirci soli nel sollevare certe problematiche, ma il constatare nel tempo che l’intero sistema di assistenza e cura si stava orientando completamente sulle Residenze per anziani raggiungendo un numero quasi incontrollabile. Da uno studio che abbiamo condotto, ad esempio, nella sola regione Lazio ci siamo accorti che le cosiddette Residenze sono in numero assai maggiore di quelle riconosciute e, quindi, censite dai dati ufficiali.
Ma dietro a tutto ciò c’è una questione legata al business per i gestori delle strutture che si sono gettati su quello che hanno troppo spesso visto solo come un mercato, in una società in continuo e costante invecchiamento e in assenza (spesso voluta) di altre soluzioni residenziali. Insomma, si è usato il medesimo metro dell’ospedalizzazione, con la sola differenza che da un ospedale si può uscire mentre da un istituto difficilmente questo si realizza». La parola d’ordine usata da Penza è chiara: «Ogni anziano ha il diritto di vivere fino alla fine dei suoi giorni in un luogo che si può definire “casa”, che vuol dire luogo familiare e personale, dove poter riconoscere la sua vita e il suo ambiente, in un quartiere frequentato dai suoi simili e in una situazione di rispetto pieno della persona».
Eppure, ci fa notare, proprio il nostro Paese è tra i fanalini di coda in Europa per quanto riguarda, ad esempio, l’assistenza domiciliare che contempla oggi, di media, un servizio di sole 16 ore l’anno per anziano. «Chiediamo al Governo che, grazie anche alla leva del PNRR, proceda ad una radicale riforma dell’intero sistema assistenziale per gli anziani, puntando proprio su residenzialità e assistenza domiciliare», chiarisce l’esponente di Sant’Egidio, non nascondendo che per tutto ciò è però «necessario invertire il trend di un sistema ormai sclerotizzato e mettere in discussione determinati interessi economici legati al business degli istituti, cresciuto esponenzialmente negli ultimi decenni. E vincendo le resistenze che già si stanno palesando».
Altro organismo istituzionale che sta lavorando al tema è l’Intergruppo parlamentare “Longevità e prospettive socio-economiche”, di cui fanno parte rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari e delle maggiori associazioni e realtà della società civile. Da mesi studia il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione del nostro Paese. «Praticamente tutti, tra rappresentanti di forze politiche e della società civile – ci dice Serafino Zilio della Fap Acli, che partecipa ai lavori della Commissione – si sono detti convinti della necessità di un cambio di rotta nella direzione di una de-istituzionalizzazione e per una maggiore residenzialità per i nostri anziani. Abbiamo ascoltato esperti e tecnici che ci hanno confermato la bontà della strada che si vuole intraprendere».
Lo stesso Zilio fa notare come attualmente già in Italia, seconda solo al Giappone per percentuali di popolazione anziana, oltre 2 milioni e 800mila anziani vivano da soli nel proprio domicilio. «La coscienza che ormai si sta facendo largo è che si tratta di ridurre la presenza delle RSA e di forme di ospedalizzazione non necessarie per una fascia di età, quella che parte dagli ultra 65enni, che si sta avviando a costituire il 25-30% dell’intera popolazione italiana».
Ma a spiegare la complessità di un sistema consolidato negli ultimi decenni ci pensa Stefano Trovato della Cooperativa Polo 9 di Senigallia, che si occupa sul territorio di anziani, offrendo personale specializzato per attività semi-residenziali. «Nelle Marche – dice – già sono partite esperienze nuove come quella del comune di San Costanzo, nel territorio di Fano, dove l’amministrazione ha richiesto uno studio di fattibilità per trasformare un edificio pubblico del centro storico in alloggi per anziani, una sorta di condominio solidale. Ma da noi – ci tiene a dire – c’è sempre stata un’esperienza molto particolare: dagli Anni ’50 in avanti quasi ogni Comune, infatti, aveva una casa di riposo per anziani dove ci si spostava ad un certo punto della propria esistenza. Questo ha indiscutibilmente costituito un sistema ramificato di assistenza, ma ha provocato anche un ritardo culturale quando queste strutture sono entrate in crisi per il mutare della società. Oggi mi pare non ci sia una prospettiva chiara ed una progettualità ancora definita. Siamo in presenza di un processo di cambiamento dei servizi da offrire, ma sbaglia chi crede che realtà come le RSA potranno essere completamente superate. Per non trasformarle, di fatto, in una specie di hospice, suggerisco che ogni riforma lasci spazio anche ad una riflessione sul come migliorare queste strutture già esistenti».
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