Ilde Rosati. Nata a Castelnovo Monti (Re) vive a Reggio Emilia. Insegnate di attività pittoriche in pensione, coltiva le sue passioni: scrittura, storia locale, calligrafia, disegno e pittura. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni e oltre alle Farfalle d’argento ha ricevuto 6 Menzioni speciali della giuria per la prosa; nel 2019 ha vinto la Farfalla d’oro per la prosa, nel 2020 la Superfarfalla e nel 2021 la Segnalazione speciale sempre per la prosa.
1917
Era l’imbrunire quel giorno, e dopo una giornata in campagna a lavorare con il rastrello per fare covoni di fieno, avevo le mani gonfie; mia madre mi ordinò di andare alla fontana e portare a casa due secchi di acqua potabile.
La fontana era stata costruita in un posto isolato a metà strada tra un paese ed un altro.
Dal terreno saliva un odore di foglie e terra che mi fece pensare ai mirtilli, ai campi arati, quelli che presto avrebbero contornato casa mia. Dietro la fontana cresceva un alto cespuglio di sambuco: godeva dell’acqua che traboccava dalla vasca di cemento.
Il rumore dell’acqua che cadeva nel secchio riempiendolo lentamente, mi impedì di sentire i passi dietro di me.
Mi girai di scatto appena una mano mi agguantò una spalla e mi obbligò a girarmi.
Erano due giovani, forse fuggiti dal fronte, mai visti prima. Avevano la barba lunga, abiti smessi e scarpe militari.
Non mi fu concesso di parlare, al mio grido d’aiuto uno dei due mi coprì la bocca con la sua mano, l’altro mi immobilizzò e assieme mi trascinarono nella scarpata, sotto al cespuglio di sambuco, nel campo ove l’erba medica era in semenza, pronta per essere tagliata. Scalciai, urlai, nessuno venne in mio aiuto.
Non mi era chiaro quello che mi avrebbero fatto, ma il tutto fu veloce e imprevedibile.
La gonna alzata sulla testa mi impedì di vederlo in viso. Era incitato dall’altro uomo e fu brutale, doloroso e violento.
Le mie urla per chiedere aiuto mi graffiavano la lingua come sabbia, le mie unghie penetravano nella pelle del collo e della faccia di quell’uomo senza riuscire a farlo smettere.
Il secondo fu anche più violento del primo perché, oltre a penetrarmi con prepotenza, mi diede un pugno sulla bocca per farmi tacere. Quanto tempo era trascorso? Poco: intorno a me tutto era uguale a prima, solo io ero profondamente diversa.
Li sentivo ridacchiare mentre si avviavano a passo svelto verso la montagna, sulla strada che portava in Toscana.
Rimasi immobile, senza respiro mentre guardavo tra i rami del sambuco un ragno che tesseva indifferente la sua ragnatela.
Rimasi immobile, stordita, dolorante e senza sapere cosa fare, poi, con il dolore tra le gambe e l’angoscia crescente nell’anima, mi alzai e andai a prendere i secchi d’acqua per portarli a casa.
Lo stomaco mi si rivoltò come un sacchetto di plastica e rigettai tra l’erba del sentiero.
Nel silenzio della sera mi accompagnarono a casa il volo dei pipistrelli che facevano i loro giri bassi e concentrici in totale silenzio, ignari della mia sofferenza.
Prima di arrivare a casa iniziai a piangere con una tristezza che non avevo mai conosciuto: mi avevano appena rubato la cosa che per una donna di quei tempi era molto importante.
Il mio pensiero era per Enrico, l’unico ragazzo al quale serbavo simpatie e forse l’unico che avrei considerato come futuro marito.
Come avrei potuto raccontargli quello che mi avevano fatto?
E l’avevano fatto senza tenerezza, senza amore, quell’amore che ancora non conoscevo e che sicuramente non doveva essere così. Avrei voluto cancellare quei momenti dalla mia vita. Ero ferita, dolorante, disperata e temevo la reazione di mio padre.
Mia madre mi fu vicina fin dal momento in cui entrai in cucina.
Vide subito il mio viso e gli occhi spaventati, la bocca ferita ed un rivolo sottile di sangue scendere da una gamba.
“Chi è stato?” “Erano in due, non li ho mai visti, mi hanno tenuta stretta e mi hanno picchiato… ho dato loro tanti calci, ma erano forti e ridevano… ridevano mentre io urlavo… nessuno mi ha sentita, nessuno mi ha aiutato!”.
Mia madre pianse insieme a me, mi accompagnò a letto, poi mi portò una tazza di latte caldo. Si sentiva in colpa per avermi mandato alla fontana quando ormai era sera?
Mi fornì alcune pezze, quelle che usavo per il ciclo e che avevamo lavato alcune settimane prima con la cenere.
L’idea che avrei potuto rimanere gravida non mi sfiorò; ero preoccupata per la mia condizione di ragazza senza innocenza che avrebbe avuto conseguenze con Enrico.
Mio padre mi interrogò sull’accaduto e lo fece con poca grazia, io gli risposi a monosillabi e lui arrivò alla conclusione che quei due fossero dei disertori sbandati.
Era il 1917, la guerra era in corso, molti giovani del nostro paese erano al fronte, a casa erano rimasti solo vecchi e bambini; pochi erano ritornati, militari feriti, zoppi, o senza un arto, alcuni sordi o ciechi. Mio fratello a 14 anni aiutava mio padre nella stalla e nei lavori dei campi; avevo altri fratelli più piccoli fino a Giulio di tre anni, formavamo una famiglia di otto anime.
L’orto, qualche gallina e tre mucche, erano a metà con il padrone; non bastavano a sfamarci e mia madre si dava da fare a cucire per quelli del paese che in cambio ci davano qualche bottiglia di vino, qualche volta un coniglio o un sacchetto di cereali.
Mia madre, devota a Dio e alla Madonna immagino pregasse ogni sera perché il fattaccio non avesse procurato altre conseguenze su di me. Nei giorni che seguirono mio padre era serio, come fosse arrabbiato, quando mi guardava in tralice rimanendo muto, ero imbarazzata sentendomi oggetto dei suoi pensieri.
Anche i miei fratelli da quel giorno mi guardavano in modo diverso, mi sentivo addosso gli occhi di tutti.
Le parole che in casa non si dicevano rimanevano sospese a mezz’aria e mi facevano sentire piccola, insignificante, quasi inutile.
Sul calendario della cucina mio padre segnava giornalmente il peso del latte che portava al casello; mia madre con la matita copiativa segnava i giorni del mio ciclo.
Due mesi dopo la violenza subita, mia madre non aveva ancora segnato niente sul calendario.
Mi portò al paese vicino dove la Nella, la levatrice, mi visitò. Mia madre stava in un angolo con gli occhi sbarrati dall’ansia …
“Temo sia gravida ma per esserne certa bisogna aspettare almeno un altro mese”.
Non mi portò più dalla Nella, e da quel giorno mi risparmiò i lavori pesanti e mi fece rimanere in casa con i miei fratelli più piccoli mentre gli altri andavano a lavorare nei campi.
Mi affidai con fiducia a mia madre: le mamme sanno tenere insieme quello che insieme fa fatica a stare e lentamente passarono i mesi. Chiamai mia figlia Guerrina, figlia della guerra, avevo sedici anni quando nacque.
lo ero bionda con pelle ed occhi chiari, Guerrina non aveva niente di me: pelle ambrata, occhi e capelli scuri.
Dopo la sua nascita i miei sentimenti per lei erano contrastanti: lei era l’usurpatrice dei pochi privilegi che mi elargiva mia madre che teneva in braccio la bimba come fosse sua lasciando in me un misto di gelosia ed indifferenza, di sottomissione e senso di colpa. Era difficile reggere a tutto ciò, c’era la guerra e in casa mia una bocca in più da sfamare e due braccia in meno da lavorare.
Tenere in braccio Guerrina, sentire il suo tepore, vederla crescere sana era un dono ottenuto a caro prezzo.
Non avrebbe mai conosciuto suo padre, ma in seguito io l’amai anche per lui.
Stringevo i denti, sentendomi fuori posto, inghiottivo polenta e bevevo il latte delle mucche.
Con l’aiuto di mia madre avrei tirato avanti, ma il silenzio di mio padre continuava a farmi sentire colpevole.
Col senno di poi capii che era preoccupato per la sorte mia e di quella di Guerrina.
Pensavo a soluzioni possibili per sradicarmi da una casa che non sentivo più mia, ebbi l’impulso di fuggire, ma dove? Cosa potevo fare con una bimba piccola? Avrei dovuto lasciarla a mia madre?
Il solo pensiero di abbandonarla mi faceva stare male.
Guerrina cresceva bene ma involontariamente rappresentava la violenza che avevo subìto, e che essendone il frutto era impossibile da scordare.
Ero sollevata di non andare alla fontana a prendere acqua, a quel posto pensavo con angoscia.
Mi accorsi di aver cambiato carattere, da ragazza allegra che cantava mentre lavorava, ero diventata taciturna e ansiosa.
Passavano i giorni, con la mia vita impostata da altri, più da sopportare che da vivere.
Quella sera mia madre trovò le parole giuste per farmi accettare una soluzione proposta da mio padre e che lei stessa, disse, da considerarsi possibile.
La loro soluzione mi scivolò addosso come l’unica strada percorribile a sanare la mia vita e quella di Guerrina.
Nel paese poco distante dal nostro, si era consumato l’ennesimo dramma di guerra. Durante un rastrellamento alla ricerca di disertori, un gruppo di militari forzarono la porta di casa di una famiglia, mancava il capofamiglia conoscente di mio padre.
La moglie con in braccio il bambino che stava allattando, prese così tanta paura che morì di infarto con il bimbo di due mesi tra le braccia. Quando il marito rientrò, disperato chiese aiuto, la notizia si sparse e in breve lo seppe mio padre.
Stipai tutte le cose di Guerrina in una federa da cuscino e in un sacco di iuta da frumento misi il mio poco abbigliamento personale. Mia madre mi abbracciò silenziosa. Mio fratello mi aiutò portando i due fardelli ed io, con Guerrina in braccio entrai per la prima volta nella casa del vedovo.
Nessun saluto, appena entrata, vidi in penombra un uomo più grande di me, certo Berto che disse: ” mio figlio ha fame, sta aspettando il tuo latte”
Fu così che a sedici anni feci da balia ad Aldo il bimbo rimasto orfano della sua mamma.
Ero fortunata, avevo abbastanza latte per entrambi: attaccavo ad un seno Guerrina ed Aldo dall’altro.
Passarono mesi in cui facevo la bambinaia, cucinavo, riassettavo la piccola dimora di Berto mentre lui faceva il falegname.
Nel torrente vicino andavo a lavare e tenevo in ordine le poche cose che prima erano della moglie di Berto.
Lui diceva che ero brava, pulita e svelta nel fare le cose.
Il tempo della mia giovinezza era un tempo remoto, Enrico non mi cercò mai, avrà pensato che mi fossi definitivamente accasata.
Forse per riconoscenza o forse perché entrambi avevamo bisogno reciproco uno dell’altra, fu facile avvicinarci, Berto era una brava persona, ora avevo chi si sarebbe occupato di me e di Guerrina.
L’amore, parola ancora sconosciuta per me, poteva aspettare, mi accontentavo del rispetto.
Berto fu un marito buono e comprensivo; non mi fece mai pesare il fatto che fossi madre a sedici anni e comprese la violenza che avevo subito; anche lui aveva vissuto la sua parte di violenza e toccato con mano come la guerra portasse conseguenze di morte e qualche volta, di vita.
Eravamo entrambi vittime innocenti e dovevamo rimediare per dare ai bambini minor sofferenza possibile.
Tra noi ci fu un sentimento di mutuo soccorso che pian piano sfociò in un profondo affetto. La nostra fu una vita coniugale che non definirei passionale, ma calma e rassicurante che durò parecchi anni producendo una famiglia numerosa, solida e laboriosa.
Guerrina si integrò con gli altri fratelli come fossero tutti dello stesso padre. Al dolore subito non sono mai sfuggita, ho cercato di cacciarlo in un angolo dei miei pensieri perché diventasse più sopportabile, pronta a ricordarlo ogni volta che un estraneo bussava alla mia porta.