Ilde Rosati. Nata a Castelnovo Monti (Re) vive a Reggio Emilia. Insegnate di attività pittoriche in pensione, coltiva le sue passioni: scrittura, storia locale, calligrafia, disegno e pittura. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni e oltre alle Farfalle d’argento ha ricevuto 6 Menzioni speciali della giuria per la prosa e nel 2019 ha vinto la Farfalla d’oro per la prosa.
In una fresca mattina di settembre, mia madre uscì di casa con tre lettere in mano per andare all’ufficio postale del paese più vicino e poterle spedire.
Alcuni giorni prima le aveva scritte a tre giovani del paese che erano al fronte da oltre due anni.
Aveva imparato a Bologna scrivere ai militari. Era la ragazza tuttofare per la famiglia del proprietario della Libreria Minerva, la più bella e ben rifornita della città. Era un dovere civico: le ragazze scrivendo, avrebbero tenuto alto il morale dei giovani che combattevano per l’Italia.
Aveva solo 17 anni. Il paesino che l’aveva vista nascere e crescere, le era già stretto; aveva visto altre ragazze ritornare dalla città completamente trasformate, con abiti, capelli e portamento signorile.
La campagna non offriva un mestiere che potesse darle uno stipendio, una vita sociale e quindi indipendenza; a casa sua tutto quello che c’era da sapere lo aveva già imparato.
Aveva fame e sete di novità, di vita, di lavorare e poter spendere il suo guadagno in cose che non fossero la farina per il pastone del maiale o il fieno delle mucche perché i campi non ne producevano a sufficienza.
Era dunque partita a 17 anni per Bologna e pur trovandosi come un pesce fuor d’acqua, ebbe la fortuna di trovare una famiglia a modo, di quelle di una volta, e una signora che non la riprendeva, ma le insegnava ad apparecchiare il tavolo per una cena con ospiti, o stirare le camicie del padrone. Tante attività non le aveva mai fatte, ma aveva volontà, intelligenza ed era abituata “all’unto di gomito”.
Il padrone poi era di poche parole, ma aveva lo sguardo buono che le ricordava il padre.
Sarebbe rimasta chissà quanto tempo con loro, se la guerra non fosse scoppiata. In quella bella casa pregna di profumi come la cera per i mobili antichi, il perborato del loro lavanderia o gli irresistibili effluvi della cucina ove, spesso, era chiamata a dare una mano e dove, una volta la settimana, prendeva possesso del tavolo per tirare con la “cannella” una sfoglia sottile e larghissima che a casa di così grandi non ne aveva mai tirate, e faceva le tagliatelle.
Le figlie della signora scrivevano regolarmente almeno una lettera al giorno ai ragazzi in guerra, poi lei aveva il compito di andare in posta per la spedizione. Che belle persone venivano a pranzo o a cena in quella casa!
“Editori” le avevano detto, e lei fece finta di aver capito ma si arrovellò per giorni su quella parola fino a chiedere ad una delle figlie con la quale si sentiva vicina d’età, cosa facessero gli editori.
Le piaceva troppo lavorare a Bologna e quando ebbe il primo stipendio si comprò un paio di scarpe con la zeppa, di gran moda in quel periodo e finalmente due paia di calze di nylon.
Poi si sentì in colpa e comperò un Borsalino per il suo papà, un foulard di seta con rose rosse per sua madre ed un portafoglio per suo fratello.
Mise gli acquisti nella valigia che teneva nell’armadio della sua camera con l’intento di fare un pacchetto.
Era maggio del 1941 e su Bologna arrivarono delle incursioni aeree che spaventarono tutti. La guerra faceva sul serio… era a Bologna da otto mesi ormai, ma ora il pericolo si toccava con mano.
Mia nonna era molto preoccupata, pensava a sua figlia e confidava le sue paure al parroco del paese, fino a pregarlo di scriverle per farla tornare.
Appena arrivò la lettera del Don, mia madre si allarmò temendo fosse successo qualche cosa di grave a casa, sollevata, però si rattristò perché sua madre le ordinava di tornare a casa.
Il dispiacere per la sua dipartita fu reciproco con la famiglia del libraio, per lei ormai abituata alla città, alla casa con le comodità così estranee alla sua, fu una lacerazione e pianse in treno per tutto il viaggio di ritorno.
A casa, abbracciò i famigliari ma disse loro che appena la guerra fosse finita, sarebbe ritornata subito a Bologna.
Era tornata da tre mesi, ora portava calzettoni di lana sferruzzati da sua madre e gli zoccoli di legno. Aveva ripreso la solita vita di campagna sperando ogni giorno che arrivasse qualche buona notizia.
Per distrarsi aveva quindi preso la penna stilografica ad inchiostro con l’astuccio di madreperla grigio, dono dei signori di Bologna e aveva scritto a Pietro, Angiolino e Prospero che da due anni mancavano da casa.
Poche righe, i soliti convenevoli e le poche novità del paese, tutte e tre con lo stesso tono perché non equivocassero o dare loro inutili speranze di interessi amorosi: tutti e tre, in tempi e modi diversi le avevano fatto il filo, ma dopo il lavoro in città, se aveva avuto qualche dubbio in proposito, era del tutto dissolto.
Ora, con le tre lettere in mano mia madre cammina di buon passo nel sentiero di terra battuta disegnato tra i campi per arrivare all’ufficio postale.
Pensa: neppure una piazza in questo paese, solo un cortile circondato da case e confronta con Bologna: piazze lastricate, auto, fontane…. ci tornerò, finirà questa maledetta guerra!
Ormai è arrivata all’ufficio postale, sente schiamazzi, un vociare disordinato ed incomprensibile, allunga il passo.
Ecco, lo vede. C’è un ragazzo biondissimo in divisa tedesca circondato da cinque o forse sei uomini italiani che urlano e gesticolano agitati.
Mia madre si appoggia al muro di una casa e, non vista, osserva la scena.
Il tedesco capisce che non può difendersi, alza le braccia e quelli lo disarmano. Gli legano i polsi, e iniziano a spingerlo, lui cade, gli sono addosso, cerca di riparare la testa con le braccia dai calci.
Gli strappano la divisa, urlano con ferocia lo calpestano, utilizzano il calcio del fucile, sferrano calci e pugni.
Il tedesco sanguina e urla: “Ilde, Ilde…”.
Non tenta di difendersi, si accascia su sé stesso per ripararsi, piegandosi come un cuscino.
Mia madre davanti a tanta violenza, ha paura, non sa cosa fare né ha chiaro chi potrebbe chiamare, le tremano le gambe, rimane appoggiata al muro nascosta dallo spigolo della casa.
Nonostante le urla concitate che tutto il borgo può sentire, nessuno interviene a soccorrere quel ragazzo che potrebbe avere circa venti anni ed essere figlio di un qualsiasi abitante del paese.
“Ilde, Ilde, Ilde”, solo quel nome urlato con tutto il fiato esce dalla sua bocca, chi può essere? Chi chiama? La mamma? La fidanzata?
Il grido raccapricciante diventa un sibilo che squarcia persino le voci concitate degli aggressori, sembra rimbalzare tra le mura delle case e ripetersi in un eco permanente.
Mia madre vede gli uomini legare il tedesco per i piedi sul retro del carro che qualcuno ha portato in gran fretta; il ragazzo urla parole incomprensibili, poi, accorato ripete: “Ilde, Ilde..”.
Uno del gruppo lega il carro ad un cavallo comparso quasi all’improvviso sulla scena del pestaggio poi sempre velocemente sale in sella al cavallo e inizia a tirare il carro.
Mia madre non scorderà mai quello che vede: i piedi del tedesco legati con una grossa fune fissati sul retro del carro, il corpo scende a terra e la testa appoggiata alla strada, le braccia incrociate legate intorno al corpo.
Lo schiocco della frusta sul cavallo e l’arringa per farlo partire sono l’epilogo. La testa del tedesco gratta la strada, i sassi…
Gli italiani rimasti nel cortile si congratulano tra di loro e si allontanano con le armi del tedesco.
Nel silenzio che rimane, solo il rumore delle ruote di ferro del carro che scende per la strada e la voce sempre più flebile di un ragazzo agonizzante che chiama “Ilde, Ilde…” sempre più piano, sempre più lontano.
Mia madre, inorridita, senza sangue nelle vene si inginocchia per recitare una preghiera, ha visto con i suoi occhi quanto la guerra può essere orrenda.
Non scorderà quella scena straziante e si ripromise che se un giorno avesse avuto una figlia l’avrebbe chiamata Ilde.
Così fu: nel dopoguerra si sposò e nacqui io.
Mi assegnò il nome Ilde, nome tradizionale tedesco il cui significato è combattimento, guerra.
Il giovane militare tedesco naturalmente morì, infatti, dopo alcuni chilometri il cavallo si fermò, appeso al carro erano rimasti i suoi piedi e le sue gambe.