Ilde Rosati.
Nata a Castelnovo Monti (Re) vive a Reggio Emilia. Insegnante di attività pittoriche in pensione, coltiva le sue passioni: scrittura, storia locale, calligrafia, disegno e pittura. Partecipa al Concorso 50&Più da diversi anni e oltre alle Farfalle d’argento ha ricevuto nel 2007, 2009, 2013, 2015 e 2018 la Menzione speciale della giuria per la prosa e nel 2019 ha vinto la Farfalla d’oro per la prosa.
Maggio 1928.
Mi trovo al Besta, uno dei numerosi padiglioni del manicomio psichiatrico di Reggio Emilia, il più famoso ed affollato di Italia.
Al mio fianco un infermiere che mi accompagna tra alte stanze affollate di donne.
Ho ottenuto il permesso di intervistare alcune pazienti internate da anni, inviata da un giornale locale che vuole fare conoscere alla cittadinanza le attività e le nuove cure all’interno dell’Istituto.
Vengo accompagnata in un salone che trasuda dolore.
Ci sono giovani psicotiche, disturbate mentali, anziane che sembrano aver perso la parola. Afrori corporali e un odore intenso di muffa sono mischiati al lezzo chimico della creolina. Le pareti sono ricoperte da scritte e disegni dalla grafia primordiale incisi nell’intonaco a volte imbrattato da dubbie colorazioni.
“Se i sorveglianti avessero visto chi faceva questi graffiti con i rebbi della forchetta, gliela avrebbero sequestrata”, mi dice l’infermiere quasi a giustificare il senso di disordine che rivelano quei murales. In questo stanzone, dal pavimento in graniglia e i soffitti alti, solo due finestre lasciano trasparire la luce, ma sono posizionate in alto per cui è impossibile affacciarsi. Una trentina di donne girano lentamente, in fila, in senso orario come un girotondo infantile, ma lento e silenzioso.
Alcune sono sedute sulle panche, fissate alla parete, con le mani in mano, con lo sguardo vuoto sembra seguano, senza vederle, le altre che continuano a girare attorno al perimetro del salone con le braccia penzoloni e con passi pesanti producono il suono di un cuneo battente su di un sasso. In effetti, guardando meglio, il pavimento appare logoro proprio dove, come processionarie, le poverette ripetono lo stesso giro.
Hanno visi lunghi e la pelle di chi da troppo tempo non vede il sole.
Ho l’impressione di non respirare… è il tanfo o lo spettacolo impressionante davanti ai miei occhi? Mi avvicino a una di loro che mi guarda, mentre le altre neppure si sono accorte della mia presenza: “Mi dai una sigaretta?”. “Che reazione avrà se le dico che non ne ho?”.
Le porgo una caramella e le spiego che non fumo: Con gesto fulmineo la prende e se la mette in bocca ancora incartata.
Guardo incerta l’infermiere e mi spiega che l’ha fatto per il timore che qualcuna altra gliela rubi. Le chiedo come si chiama, e, mentre sputa a pezzi la carta, risponde: “Adele, mi chiamo Adele”.
“Hai voglia di uscire? Fuori c’è il sole”, e dopo alcuni minuti in cui ho pensato che non avesse capito…
“Voglio andare nella mia cella”.
Evitando di chiamarla cella rispondo: “Vuoi andare nella tua stanza?”, mi penetra con il suo sguardo freddo e profondo: “La mia cella è pulita, la pulisco tutti i giorni, gratto le pareti, voglio tornare là!”.
L’infermiere mi spiega che è stata per molto tempo in isolamento in una cella.
“La mia camera è piccola, la finestra è piccola come un mattone, io sto alla finestra, non vedo il cielo ma sento il profumo dell’aria”. Il suo ragionamento detto tutto d’un fiato mi raggela e penso che Adele si differenzi dalle altre che hanno un aspetto assente e trasandato.
Qui le pareti sono sporche, io le voglio pulire, ma non posso, e poi nella mia cella c’è un topo che mi fa compagnia, gli do un po’ di pane e lui mi gira tra i piedi, il dottore ha detto che devo stare insieme alle altre. Qui le pareti sono sporche e tutti urlano.
Mi guardo attorno e la desolazione mi pervade, sento empatia per Adele e capisco il suo bisogno di silenzio. Le altre stanno girando ancora con le mani chiuse a pugno dentro le tasche del grembiule o con le braccia cadenti lungo il corpo: ad alcune scende la saliva a filo dalla bocca aperta. Il grembiule grigio le fa sembrare tutte uguali.
Improvvisamente le urla di una di loro: “È l’Ida, lei crede di cantare”, mi spiega l’infermiere, ma subito dopo la Teresa la zittisce con due ceffoni.
L’Ida ha paura della Teresa: se inizia a dare botte, non è facile farla smettere.
L’Adele osserva, io le chiedo: “Adele, vorresti venire via da qui?”.
“Non mi chiamo Adele, mi chiamo Esterina, o forse Berta, non me lo ricordo più”.
Rimango sconcertata, mi era sembrata abbastanza lucida… L’infermiere mi spiega che Adele ha subito vari cicli di elettrochoc che l’hanno svuotata dei rilordi e della sua volontà.
Come a riprendere il discorso di prima, Adele comincia a parlarmi: “Qui le pareti sono sporche, voglio pulirle ma hanno detto che non posso… La memoria un po’ mi viene e poi va via subito, avevo una casa, c’era mia madre e le mie sorelle, non so quante. Ormai sono vecchia, ho più di quaranta anni, l’ha detto il dottore… forse mia madre non c’è più, ma io la sogno”.
Mi fa tenerezza ed è sorpresa che io stia ad ascoltarla.
“A casa mia le pareti erano pulite ed io stavo facendo il letto, avevo aperto fa finestra, mi sono chinata a raccogliere una calza, sì una calza di lana, mi sono alzata all’improvviso e ho sentito un colpo sulla testa, il ferro della maniglia della finestra mi si è conficcato nella testa. Ho sentito tanto dolore e sono caduta, mia madre urlava perché non li vedevo e mi diceva di parlare, io sentivo ma non riuscivo a parlare e non vedevo, però sentivo il caldo del sangue… ce l’hai una sigaretta?”.
Le allungo un’altra caramella però scartata…
“Non ricordo l’ospedale, ma sono diventata epilettica e mi venivano le crisi, ho visto tanti dottori, i miei non riuscivano a tenermi a casa e mi hanno portato qui”.
Mi ha raccontato la sua vita, ne sono sconvolta.
Chiedo all’infermiere la veridicità della sua storia: tutto corrisponde.
“Ti piacerebbe uscire da qui?”. Faccio questa domanda d’istinto, senza pensare alle conseguenze, deve esserci una soluzione per toglierla da questo ambiente.
“Voglio tornare nella mia cella, devo pulire le pareti, ho un dolore qui dentro che non guarisce (e accenna alla testa) e la mia vita, se non pulisco, è utile come gli scarafaggi che escono dalle crepe dei pavimenti”.
“Sai leggere? Hai voglia di fare qualche cosa?”.
“Non so leggere, so solo pulire e ricamare, mi chiamo Esterina, voglio andare dove c’è silenzio, non voglio sentire Ilda che urla”.
Mi giro verso l’infermiere e chiedo con gli occhi se si può fare qualche cosa…
Mi guardo ancora attorno e immagino che ogni giorno sia uguale all’altro, nello stesso posto, in una sequenza senza tempo e sento una pena infinita per tutte ma ancora di più per questa donna dal destino infame.
Non posso rimanere indifferente alla sua storia e mi sento di dover fare qualche cosa subito, prima che quel poco di dignità che le rimane vada sprecata.
Le sue parole mi girano nella mente alla ricerca di una soluzione che possa aiutarla.
E la soluzione, dopo una notte insonne è a portata di mano.
All’interno del perimetro del manicomio, nel padiglione Antonio Marro una giovane psichiatra Maria Del Rio sposata con l’illustre psichiatra Bertolani, ha istituito una scuola di ricamo per giovani disadattate e psicotiche.
L’intento è di curare le ammalate meno gravi con l’ergoterapia, la terapia del lavoro, metodo innovativo per questi tempi e il manicomio di Reggio Emilia ne è il portabandiera. Il lavoro è al contempo terapia e apprendistato per le donne che potranno tornare alla vita fuori dal manicomio.
Dopo l’intervista chiedo un colloquio con la dott.ssa Maria Del Rio; il trasferimento di Adele nella colonia del Marro è stato facile.
Seguii per mesi la mia protetta e ogni volta che andavo da lei portavo caramelle o dolcetti. Lentamente riprendeva il lessico e nei movimenti, nelle espressioni, la naturalità di una persona che lentamente usciva da una malattia. Non parlava più di pareti o di pulizia, sembrava integrarsi nel gruppo ogni giorno di più.
Il ricamo era per Adele un’arte innata e le serviva da terapia.
Le sue crisi, ora che era impegnata, erano rarissime. Orgogliosa del suo lavoro, non chiedeva di rimanere sola nella stanza, anzi, iniziò a chiedere alle altre ricamatrici i fili che le servivano, si lasciava consigliare sulla realizzazione del punto annodato e accettava consigli dalle più esperte per l’esecuzione del riempitivo.
Per la sua naturale predisposizione e la sua passione Adele venne scelta per la realizzazione di manufatti da mettere in vendita in una mostra a Reggio città.
Le sue mani non tremavano più e la terapia di medicinali diminuì. L’ergoterapia su Adele aveva fatto miracoli!
Nella mostra internazionale che nel 1932 si svolse a Bari sul tema delle arti locali, la direttrice del Marro, fra gli altri manufatti inviò una tovaglia interamente ricamata da Adele. I disegni tracciati sulla tovaglia di bisso, riprendevano le decorazioni dei capitelli della chiesa di Paullo di Casina, chiesa matildica dell’alto medioevo.
Colori armoniosi di varie sfumature calde si ripetevano sul bordo della tovaglia che Adele aveva pazientemente ricamato. Conquistò il primo premio nazionale per i manufatti artistici locali.
La dottoressa Maria del Rio Bertolani usò la sua intuizione di ispirarsi alle decorazioni architettoniche per trasferirne le linee sui manufatti in ars Canusina (arte di Canossa).
Adele, non avendo famiglia, rimase internata nell’istituto per anni, ma godeva di una piccola stanza per dormire sola e di giorno insegnava ricamo a molte ragazze e donne che come lei, non avevano più bisogno del trattamento di elettroshock.
Breve storia dell’Istituto san Lazzaro di Reggio Emilia
Alla periferia di r.e. una vasta area è occupata dal San Lazzaro. In origine (nel 1100 circa) era ricovero dei lebbrosi, in seguito, nel 1300 circa, ricovero per gli ammalati di peste. Dal 1536 in poi ospitò “popolazione sgradevole” accogliendo invalidi, decrepiti, storpi, epilettici, sordomuti, ciechi e paralitici. Nel 1859 viene denominato frenocomio S. Lazzaro e diventa stabilimento generale per l’Emilia.
Nel 1924 diventò Istituto Psichiatrico San Lazzaro.
All’interno verrà intrapreso un percorso medico – pedagogico alla profilassi della devianza minorile, rieducando, dove possibile, attraverso l’ergoterapia. Dal 1978 con la legge Basaglia che abolì il sistema manicomiale, i vari padiglioni si svuotarono e ora vengono utilizzati per i servizi dell’Azienda Sanitaria Locale.