Professore, cantante e scrittore, non necessariamente in quest’ordine. Pietra miliare della musica italiana e apprezzato insegnante, avverte: per imparare, bisogna andare oltre gli schemi
Lunedì mattina. Suona la campanella. Prima ora, Matematica, seconda e terza ora, Lettere. Molti studenti tra i quindici e i sedici anni si alzerebbero dal letto di malavoglia davanti a un inizio di settimana così. Quelli che negli anni Ottanta frequentano alcune classi del liceo classico Cesare Beccaria di Milano, però, il lunedì mattina si divertono. Nel primo giorno della settimana, infatti, hanno un appuntamento a Parco Sempione, dove li aspetta il professore di Lettere. Si chiamano “giornate di follia”. O almeno così le chiama il professor Vecchioni, che “dirige” quegli appuntamenti. Una volta arrivati, ci si mette comodi e si inizia. La sfida è solo una: aggirare l’ovvio, andare oltre il risaputo. È così che si impara qualcosa di nuovo partendo dalla più semplice delle domande o da un’idea che potrebbe sembrare banale quando di banale, in verità, non c’è mai nulla. Lo racconta Roberto Vecchioni nel suo ultimo libro Lezioni di volo e di atterraggio, edito da Einaudi, in cui narra le scoperte dei suoi studenti di quegli anni, svelando tra le righe il rapporto che lui stesso ha coltivato con le parole nella sua duplice carriera di professore e cantautore. E proprio da lui ci siamo fatti raccontare di più su questi due aspetti della sua vita e molto altro.
È stato professore per tanti anni, conoscendo generazioni di ragazzi. Cos’ha imparato dai suoi alunni e cosa hanno imparato loro da lei?
Il mondo della scuola, dell’insegnamento, dell’educazione è reciproco. Sempre e comunque. L’insegnante che si trova davanti alla classe deve corrispondere con tutti gli alunni. E si tratta di un microcosmo di umanità: ogni ragazzo rappresenta qualcosa che, poi, ritrovi nella vasta umanità fuori da quella classe. Ognuno di loro ha il proprio carattere, i propri pensieri, i propri desideri, le proprie paure. E in quel momento sono già “in piccolo” ciò che saranno qualche anno dopo, da grandi. L’insegnante, in questo senso, non può “infilare” notizie dentro la testa di un ragazzo, ma deve tentare di dargli gli strumenti come le emozioni, la voglia di capire il mondo e gli altri. E questo è uno scambio reciproco. Chi si trova a fare l’insegnante non è granitico e non sa tutto della vita o delle cose attorno a sé. Impara tantissimo dai ragazzi e da cose importanti come l’amore che provano, la loro cultura musicale, il modo in cui si rapportano con gli altri. E poi (l’insegnante, ndr) deve imparare a non richiedere di più a chi ha qualche difficoltà, ma deve richiedere moltissimo a chi ha tutti gli strumenti.
Parlando di ragazzi e di ventenni… Cinquant’anni fa è uscita Luci a San Siro e in quel testo era disposto a scambiare fama e denaro per tornare ai suoi vent’anni. Come la pensa oggi?
Allora di fama ne avevo poca, lì era un’esagerazione mia (ride, ndr). Adesso ho quella che desidero. Ciò che faccio, canto e dico non sempre è di facile comprensione perché ci sono dei messaggi e delle seconde letture. Per questo chi mi segue rispecchia esattamente il pubblico che desideravo avere. Nonostante ciò, come tutti credo, sarei ancora disposto a barattare l’età con ciò che ho e che ho avuto.
Quando si racconta, dalle lezioni a Parco Sempione alla canzone dedicata a San Siro, lascia trasparire l’amore per Milano, la sua città natale, ma anche per le sue origini napoletane. Com’è cambiato il suo rapporto con le radici nel corso degli anni?
Direi che è cambiato, ma non troppo. Penso dipenda anche dalla mia impostazione: credo che chi canta debba guardarsi dentro il cuore e non possa guardare solo dentro la propria testa. Le radici in questo giocano un ruolo fondamentale. Nel mio caso, Napoli e Milano sono state importanti per motivi diversi. Milano, ad esempio, mi ha dato le correzioni: mi ha fatto vedere dove stavo esagerando e dove stavo sbagliando. Mi ha anche dato qualche secchiata in faccia, accrescendo la razionalità che mi serviva. Direi che Milano mi ha fatto da madre, mentre Napoli, più estrosa e creativa, mi ha fatto da padre in modo fantasioso e stravagante.
A proposito di madri e di padri… Come ha vissuto la genitorialità?
Io ho avuto un padre che era un gran giocatore, un amante delle donne, un grande innamorato della vita e napoletano. Spaventosamente bello e fantasioso. Scrissi su di lui una canzone quando un giorno lo incontrai fuori di casa mentre tornavo dalle mie gozzoviglie, alle 5, e lui usciva per andare al lavoro prestissimo. L’uomo che si gioca il cielo a dadi è dedicata a lui. Penso che se qualcuno ha o ha avuto un padre così, è una persona fortunata. Io, invece, ho perso moltissime cose della quotidianità dei miei figli perché ero sempre fuori casa. Però ho tentato di recuperare in fantasia, in gioco, in sogno. Ho cercato di insegnare loro che qualsiasi cosa accada nella vita devono mantenere i propri sogni e la fiducia in se stessi. Penso sinceramente, adesso che sono grandi, di avergli dato poco. Però i miei figli mi ribadiscono che quello che sono riuscito a dare loro è ciò che richiedevano, il resto lo trovavano altrove. Così mi dicono, anche se io non ne sono molto convinto.
Del rapporto tra genitori e figli, d’altronde, Vecchioni se n’è occupato in un intero album dal titolo Canzoni per i figli, che si apre con Le rose blu, una canzone che racconta della potenza dell’amore che un padre può provare. «Nasce dalla storia di un bambino di 12 anni a cui viene diagnosticata una malattia da cui non guarirà mai più – racconta -. Un bambino a cui piacciono le rose blu, che danno il titolo alla canzone. Sono fiori che il padre vorrebbe regalargli per renderlo felice, ma che in natura non esistono e non sa dove reperire. Così, in intimità, si rivolge all’unico essere al mondo che può ascoltarlo e che sta lassù. Questo dialogo propone uno scambio per avere le rose blu per il figlio. Uno scambio totale. Uno scambio che non è la vita – perché tutti i genitori darebbero la vita per i propri figli – ma è ben più complicato: è dare ciò che hai vissuto. I sogni, le speranze, i desideri, i ricordi, l’infanzia, la gioventù. Tutto. Come se non ci fosse mai stato solo per avere la felicità di un figlio. È una canzone difficile ma importante perché parla di una storia vera».
Un altro dei pezzi che ha contribuito a consacrare il suo successo prende spunto da una leggenda orientale e parla del destino: stiamo parlando di Samarcanda. Com’è nata questa canzone?
Ha una storia molto divertente: è nata in macchina. Io tendo a scrivere poco: di solito penso e ripenso e vado a memoria. Stavo percorrendo l’autostrada da Milano a Bologna nel ’77. Volevo scrivere una canzone sul destino e ho pensato a questa che è una leggenda antichissima. L’avevo quasi completata, ma mi mancava uno spunto perché diventasse ascoltabile. Ci voleva qualcosa di particolare che è arrivato mentre entravo a Bologna. Avevo scritto tutta la storia del soldato che scappava e la morte che lo inseguiva, di lui che se ne andava nella città in cui la morte lo aspettava. Era una bella storia. Insomma, ero in macchina, un tizio davanti a me – uno scriteriato – frena di colpo e io sto per andargli addosso. Mentre sto per sbattere contro la sua macchina, mi esce un “Oh oh c******e!”. E da lì mi viene in mente un motivetto che ormai conoscono tutti: l’“oh oh cavallo” di Samarcanda.
Un’ultima domanda: tra quelle che ha scritto, qual è la canzone che preferisce?
Questa è una domanda cattiva perché le canzoni che ho scritto la sera mi vengono a trovare e mi tornano in testa. Ti sei dimenticato di me, mi dicono. Non mi hai cantato ieri. Per questo non ne ho una preferita del mio repertorio, perché ci sono canzoni che sono precise e raccontano proprio il momento che volevo immortalare, con le sensazioni che volevo raccontare. Altre sono un po’ più traballanti. Quelle meno conosciute, però, forse sono quelle che amo di più e che mi stanno più a cuore. Ma sono tante, più di 280 canzoni, quindi non posso fare una classifica particolare. Sicuramente quelle dedicate a persone amate o all’amore che ho per me, sono tra quelle che mi piacciono di più.
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