Roberto Provenzano. Pensionato, es docente di università di cinema e tv. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Milano.
20 agosto 1956. Porto di Palermo, Molo 3.
I marinai stanno liberando dalle bitte le grosse gomene che la grande nave risucchia verso se stessa mentre il rumore dei motori si alza, i fumi dei fumaioli si ingrossano e si scuriscono e un altissimo fischio annuncia la incipiente partenza. Sulla banchina ci sono tante persone che sventolano fazzoletti bianchi, ma nessuno sembra felice, anzi hanno tutti le lacrime agli occhi. Infatti, non è la partenza di una crociera ma quella di tanti emigranti in cerca di fortuna in America.
Fra loro c’è Anna, una donna ormai sui cinquanta passati, piccola e tarchiatella, vestita di nero, a “lutto stretto” ormai da trenta anni per la morte precoce del marito dopo soli tre mesi dal matrimonio. È lì per salutare il “suo” Paolo. La sua bocca si muove lentamente per pronunciare parole che però non diventano suono se non nella sua mente: “Si nnii sta ieunnu a Merika… Si nni sta iennu a Merika …. Si….”. Paolo, anch’egli con gli occhi umidi, da par suo, dall’alto agita instancabile la mano per dirle arrivederci. Non vuole nemmeno prendere in considerazione che quello possa essere un addio.
Paolo non è suo figlio, ma lo ha cresciuto lei. Prima come “cammarera” dei suoi genitori e poi come badante di lui appena sedicenne, quando i suoi genitori, per un incidente d’auto, se ne erano volati in cielo. Gli avevano lasciato una piccola casa di proprietà a Bagheria e pochi risparmi che, insieme a una piccolissima pensione da orfano gli avevano permesso di tirare a campare un paio d’anni mentre – interrotti gli studi – andava “a mastro” come sarto.
Paolo, dotato di una vispa intelligenza e di una buona determinazione nel fare, aveva imparato in fretta a cucire e aveva uno spiccato talento per il taglio e a ventun anni si era ben presto messo in proprio. Le cose per alcuni anni andarono benino e lui, ormai ventitreenne, stava incominciando a pensare di cercarsi una fidanzata e l’aveva anche individuata: Elvira, una brava ragazza, quarta figlia di un barbiere, molto carina ma di una bellezza quieta, e consapevole del suo ruolo di donna in una società patriarcale. Però non aveva ancora fatto in tempo a dichiararsi quando in Italia erano comparsi i primi vestiti di confezione industriale che in un batter d’occhio avevano distrutto il mercato delle tante sartorie maschili di Bagheria (e di tutta Italia). D’un tratto tutto cambio.
Con quel poco che Paolo riusciva a raggranellare e molto grazie alla sagacità di Anna, che trovava modi e maniere di arrangiarsi e di risparmiare su tutto, potevano assicurarsi i tre pasti quotidiani, ma durante le domeniche pomeriggio passate al bar a giocare a tressette Paolo non poteva permettersi più di un caffè e quindi, obtorto collo, aveva dovuto rimettere in un cassetto i suoi sogni d’amore.
Giorno dopo giorno, diventava sempre più duro e difficile portare a casa quei quattro soldi che servivano per tirare avanti, quando Paolo ricevette una lettera da Giuseppe, un suo giovane lavorante che l’anno prima era emigrato in America, che gli consigliava di mollare tutto e di emigrare a sua volta, poiché in America c’era molta richiesta di lavoranti nelle “factories merikane”.
Paolo amava il suo piccolo paese e ci stava bene. Di quella possibilità di emigrare ne aveva discusso a lungo con Anna e con tutti i suoi amici – tutti contrari – ma alla fine si era deciso. Si era fatto fare il passaporto, aveva venduto tutti i suoi strumenti di lavoro – comprati negli anni a rate con grossi sacrifici – aveva chiesto soldi a prestito a destra e a manca ed era riuscito a comprarsi il biglietto. Anche Anna avrebbe voluto dargli i suoi pochi risparmi, ma lui non li aveva voluti perché come le disse: “Chisti sordi hanno a serviri a tia fino a quannu iu mi sistemu a Merika. Poi i sordi ti li mannu iu, accusì tuorni a Bagheria, riapri a casa e stai lì a aspettarimi, picchi iu ogni anno vuogliu turnare o paisi pa festa di San Giuseppi e magari pi truvarimi na brava muglieri e poi vi puortu tutt’e du a ‘Merika”.
Trainata dai rimorchiatori la nave cominciò ad allontanarsi mollemente dalla banchisa e la folla a muoversi verso le uscite dal molo. Anna però resta lì, con le guance rigate da rughe d’acqua, con la sua valigia di cartone a lato e in spalla la truscia con le vettovaglie per il viaggio in autobus fino a casa della sorella nella lontana Sommatino.
Sa di dover andare, perché i suoi pochi soldi non basterebbero per pagare le spese della casa di Paolo a Bagheria. Sa di dover andare, ma non si muoverà fino a quando non saranno scomparsi dalla sua vista i fumi delle ciminiere della grande nave che si sta portando via il “suo” Paolo.