Rita Guadalupi. Impiegata statale in pensione con la passione per la scrittura. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Brindisi.
Percorrevo, stancamente, una lunga strada deserta a ridosso di un grande campo circolare incolto e stopposo, recintato da un alto reticolato a maglie larghe. Camminavo senza meta, ignorando dove quella strada mi avrebbe condotto, e cosa mi attendesse al di là di tanta desolazione… Improvvisamente, dalla direzione opposta, vidi svettare un centauro che, sorprendentemente, si arrestò proprio accanto a me, bloccandosi col piede a terra dalla mia parte, quasi a darmi l’opportunità di montare in sella, e con una determinazione tale da lasciarmi supporre, in seguito, che quello fosse un preciso compito affidatogli. Sostò solo qualche istante, senza proferire parola e col volto completamente coperto dal casco. Un attimo di esitazione da parte mia, ed aveva già ripreso la sua corsa, senza darmi né il modo né il tempo di riflettere sull’opportunità di accettare quell’invito al buio, inconsueto e inaspettato. Continuai faticosamente per la strada intrapresa, rassegnata a percorrerla fino in fondo quasi fosse un percorso obbligato. O un castigo predeterminato… E senza neppure approfittare di uno strappo nella rete che mi avrebbe consentito di penetrare nel campo abbreviandone il tragitto.
Un vecchio e breve sogno, apparentemente insignificante, che però ricordo ancora nonostante i lunghi anni trascorsi. Era la sintesi onirica e speculare, per me fin troppo esplicita, di un’esperienza vissuta: l’occasione perduta di dare una svolta alla mia sterile vita, cambiandone completamente direzione. Accettando però, che qualcun altro ne prendesse le redini e ne improntasse il successivo decorso, senza avermene lasciato maturare la SCELTA. Un decorso – allora ne ero convinta – che mi avrebbe necessariamente costretta a rinunciare ad una misteriosa e sfuggente chimera, il cui tocco mi aveva precedentemente travolta, inebriata e incatenata… Una sfida del DESTINO, una scommessa, un’opportunità cui non ero pronta a rinunciare…
Era bello, intelligente e fascinoso il mio sconosciuto centauro: molto più di quanto la mia refrattaria timidezza e il mio modesto aspetto avrebbero consentito di conquistare; e che invece il caso mi proponeva su un piatto d’argento. Forse… infiltrato in quel giogo come prova da affrontare, o forse… come allettante chance alternativa ad un gioco troppo ardito e al di là dei miei limiti.
Poco meno di due anni prima di conoscerlo, con una spaventosa deflagrazione nella mia mente, venivo catapultata in tutt’altra dimensione, al cospetto del Sublime e del Terrificante, e trasportata in preda a delirio nel reparto psichiatrico dell’ospedale dove, legata mani e piedi, con una massiccia dose di farmaci venivo drasticamente riportata alla realtà, e defraudata di quelle facoltà eccezionali – chiaroveggenza e forza non comune – acquisite con quel salto nell’ignoto come carismi “per combattere il male”, e appena esperite da attonita spettatrice mentre agivo alla stregua di un burattino mosso da invisibili fili…
Esattamente un anno dopo, un altro devastante episodio simile si risolse spontaneamente, lasciandomi tuttavia ancora una volta sbigottita ed atterrita in balia di mille perché, e nello stesso tempo, delusa e amareggiata per un ritorno alla realtà vissuto come una perdita, perché paradossalmente solo in quella condizione mi ero sentita veramente viva…
Poi, dopo appena qualche mese, il fenomeno si ripresentò. Stavolta però trasformato: non ero più l’Automa alla mercè di una Forza Superiore cui mutuavo corpo e voce da inerte spettatrice. Quell’automatismo che scattava irrefrenabile non era più avulso e scisso dal mio pensiero ma ad esso saldamente ancorato, ed anzi proprio al suo servizio, in perfetta sintonia con quella Forza Superiore che ora me ne concedeva l’usufrutto sovrastandomi e monitorandomi.
Un automatismo verbale che ora dava la stura ad un magma di rabbia e dolore, ad un effluvio di pensieri ed emozioni che, efficacemente espresso, riversavo all’esterno con enfasi, istrionismo e voce stentorea; senza inibizioni e incurante di rischi o conseguenze. Un trascinante automatismo, che cavalcavo come su una vorticosa giostra inceppata, euforica ed ebbra di libertà… Un automatismo destinato ad esaurirsi come tante altre volte a seguire, con o senza l’imposizione di farmaci. E una volta tornata alla scialba realtà, in cui mi rispecchiavo, di vitale in me rimaneva solo il morboso desiderio di riviverne l’esaltante esperienza liberatoria, stavolta accarezzando la lusinga in me suscitata di poter finalmente cambiare personalità; non dimentica del misterioso fine ignoto sotteso a quel tremendo e sofferto primo richiamo… E se di sfida si trattava, ero pronta ad accettarla. Un percorso che si sarebbe rivelato impervio e altalenante, dal precario equilibrio minacciato da paurosi ed inspiegabili fenomeni…
Fu nel periodo appena descritto che lo incontrai. Mi ero imbattuta in lui ad una mostra di quadri, dove mi ritrovai seguendo un impulso irrazionale, lo stesso che mi indusse ad improvvisarmi vivace critica d’arte. Mi si parò di fronte aitante e baldanzoso, sdrammatizzando con un’ammiccante battuta scherzosa un mio amaro commento, e conquistandomi con un sorriso. Gli sorrisi di rimando, e finì lì: aveva una fede al dito…
Lo rividi un giorno per caso e cominciammo a frequentarci. Ma io non ero più la giovane donna esuberante e frizzante che aveva impattato un paio di mesi prima. L’euforia era evaporata lasciandomi triste e spenta come ero sempre stata. Ma gli piacevo anche così: aveva bisogno di una spalla su cui piangere. Ed io, di due braccia in cui rifugiarmi…
Mi raccontò di aver avuto un acceso diverbio con la moglie per cui lei era tornata dai suoi portandosi la loro figlioletta di nove mesi. Poi, successe tutto troppo in fretta. Qualche incontro nel giro di un mese… e il ciclo che tardava… Ebbi la conferma che temevo e gliela comunicai. Con mio grande stupore mi guardò intenerito e piacevolmente sorpreso: quella che allora mi parve la reazione sconsiderata di un incosciente irresponsabile. E fui inamovibile: quel bambino non sarebbe mai nato.
Avevo in cuor mio, già accettato la sfida e non potevo rinunciare senza avere almeno tentato…
Una sfida, una partita tanto spesso negli anni rinfocolata, rincorrendo l’ambita metamorfosi mai compiutasi… Una partita che oggi so definitivamente persa, e che mi presenta, inesorabile, il conto: il rimpianto cocente di quel viaggio rifiutato ed abortito, che trascino in solitudine come pesante zavorra… e mi chiedo, struggendomi, se la SCELTA opposta avrebbe sortito la stessa amarezza, o partorito soltanto un oscuro, insano e inoffensivo ricordo nei recessi della memoria… Un rimpianto tale, da rivelarsi come l’ultima beffa di un implacabile Karma cui non sono riuscita sfuggire.