Dopo la pandemia sarà impossibile non ridefinire gli spazi delle città in funzione di una nuova società, sempre più dislocata fuori dai grandi centri urbani e con un numero di senior crescente. Il parere dell’architetto Domizia Mandolesi.
Se la spinta al cambiamento delle città era già nell’aria, la pandemia potrà forse dare quell’accelerata verso un ripensamento degli spazi urbani in funzione di nuovi stili di vita. Ma anche nella consapevolezza che la popolazione senior sarà sempre più numerosa, con una permanenza più duratura sul mercato del lavoro, grazie anche alle nuove flessibilità legate allo smart working, e con una richiesta specifica di servizi di comunità, per il tempo libero e la cura della persona.
Il distanziamento fisico e il rischio di contagio legato ai luoghi chiusi e affollati, insieme a una delocalizzazione del lavoro e a un maggior numero di ore trascorse negli ambienti domestici, stanno portando a riflessioni profonde non soltanto sulla struttura economica e sociale odierna, ma anche sul suo impatto nello spazio metropolitano. Pendolarismo, congestione delle zone centrali e omologazione estrema delle periferie destinate a essere dei “non luoghi” dormitorio più che spazi di vita e di inclusione di esperienze, sono caratteristiche della nostra modernità che probabilmente saranno superate dai tempi e da nuove esigenze, se si potrà cogliere l’opportunità di ripensarle.
«La città è la proiezione della struttura economica e sociale di una società nello spazio, e di questa struttura presenta contraddizioni, disuguaglianze ma anche opportunità, ricchezze, dinamismo economico e sociale – afferma Domizia Mandolesi, docente di Progettazione architettonica e urbana presso la Facoltà di Architettura dell’Università La Sapienza di Roma e direttrice della rivista bimestrale di architettura L’industria delle costruzioni -. La pandemia è solo la punta dell’iceberg di una serie di criticità ben note, dovute ai nostri stili di vita e alle loro conseguenze sull’ecosistema, ma in qualche modo rimosse».
Professoressa Mandolesi, è possibile un ripensamento “sostenibile” delle nostre città?
Credo che questa emergenza dolorosa e imprevista a scala globale ci stia mettendo di fronte al fatto compiuto, rendendo ineludibile l’assunzione di comportamenti più responsabili sia come utilizzatori che come consumatori di beni e servizi, costringendoci a ripensare abitudini e dinamiche quotidiane e con esse i luoghi e le città in cui viviamo. Dobbiamo avere una visione positiva e cogliere tutto questo come opportunità per progettare un futuro migliore per noi e per il nostro ambiente, individuando le soluzioni più adatte a vivere bene in un pianeta molto popoloso dove ciascun individuo possa avere le stesse possibilità, gli stessi diritti e la medesima libertà nel movimento, nello scambio e nell’incontro con gli altri. Questo è possibile, a mio avviso, attraverso tre azioni principali: contrastare la globalizzazione dei sistemi di vita che produce ambienti costruiti omologati in città troppo dense e congestionate causa di stress e inquinamento; riconoscere le differenze culturali e promuovere la diversità nei comportamenti e nella distribuzione delle attività, superando le logiche che generano disuguaglianze e segregazione sociale nei contesti urbani; individuare strategie a favore di una distribuzione più equilibrata della popolazione nel territorio, che superi la logica dell’alta concentrazione nelle “metropoli” a scapito dei centri minori e delle campagne. A questo proposito, un esempio importante è rappresentato dalla Cina, Paese che, dopo l’esodo di massa della popolazione dalle campagne e la costruzione in poco più di un ventennio di nuove città per milioni di abitanti, recentemente vede il governo impegnato in una drastica revisione delle politiche di espansione urbana. Grazie anche alla capillare ed efficiente rete delle infrastrutture interne su ferro di cui il Paese si è dotato, e alla diffusione di reti di telecomunicazione avanzate come il 5G, si sta verificando un’inversione di tendenza con la promozione, attraverso sostegni economici e strategie mirate, dei vecchi borghi rurali, con il rilancio di agricoltura e attività locali di vario tipo anche legate alla tradizione, al fine di ripopolare intere aree in abbandono. Dovremmo muoverci anche noi in questa direzione.
Come si può affrontare questa riorganizzazione urbana a fronte di un invecchiamento crescente della popolazione, tenendo conto delle esigenze degli “over”?
Sappiamo tutti che l’Italia è uno dei Paesi europei con la più alta percentuale di popolazione anziana e che queste persone richiedono un’attenzione particolare, sia a livello assistenziale che di servizi e spazi urbani. Tuttavia, la città deve essere pensata per tutti e non per una sola categoria di cittadini, deve essere accessibile e fruibile da ogni individuo senza distinzioni, prevedendo diverse tipologie di abitazioni e servizi secondo il principio della mixitè funzionale, creando luoghi e spazi pubblici per favorire relazioni comunitarie e scambi sociali intergenerazionali. La città, che sia antica o moderna, ha origine dal desiderio degli uomini di stabilire rapporti sociali, economici, politici, per questo la sua forma non è stabile ma in continua trasformazione. È nei nostri interessi orientarne il cambiamento per non perdere i vantaggi dell’agglomerazione e della vita di comunità.
Lei si è occupata anche di residenze collettive, con uno sguardo proprio sulla terza età: quali caratteristiche devono avere per poter essere integrate nello spazio urbano circostante e per offrire servizi a misura di persona?
Mi sono occupata di residenze collettive per la terza età ormai quasi dieci anni fa, attraverso una ricerca finanziata dall’ateneo La Sapienza. È stata un’esperienza molto interessante e stimolante perché ha costituito un punto di partenza per riflettere sull’articolazione degli spazi domestici e sul loro progetto a partire dalle relazioni che possono stabilirsi tra la dimensione più intima e privata e quella comunitaria, sia su singola abitazione che a dimensione dell’edificio e del quartiere. Studiando esempi di residenze collettive per anziani, autosufficienti e non, costruite in tutta Europa, sono emersi modelli di grande qualità, con caratteristiche ben precise che dovrebbero diventare la regola, sostituendo le molte tristi strutture ancora presenti nel nostro Paese, più simili ad alberghi di bassa categoria o a corsie di ospedale anziché a luoghi dove trascorrere gli ultimi anni della propria vita. Complessi, innanzitutto, di dimensioni contenute con massimo 40/60 ospiti, ubicati quasi sempre in prossimità di centri urbani abitati per evitare l’isolamento, dove l’atmosfera domestica e il rapporto tra interni ed esterni (logge, balconi, giardini privati e/o condivisi) costituiscono una costante della qualità spaziale complessiva contro la ripetizione seriale di stanze lungo anonimi corridoi. In questi edifici gli spazi di distribuzione, pensati come luoghi piacevoli dove incontrarsi o sostare, unitamente agli ambienti di soggiorno comuni, rappresentano la struttura nevralgica del sistema abitativo, lasciando a ciascun residente la libertà di scegliere se e quando incontrare gli altri. Queste residenze sono espressione di un concetto di abitare che oggi sta diventando sempre più diffuso, non solo per le categorie di anziani e studenti ma anche per giovani professionisti, coppie e nuclei famigliari, che individuano nella condivisione di spazi, funzioni, attività, senza comunque rinunciare a un proprio ambito domestico privato, una possibilità di convenienza sul piano economico e gestionale, ma anche un’opportunità di scambio sociale.
Lo smart working ha offerto possibilità alternative per ricalibrare spostamenti e stili di vita: è ipotizzabile una riqualificazione dei piccoli borghi in funzione di queste nuove opportunità? E, soprattutto, è possibile una sinergia fra le piccole realtà e i grandi centri urbani evitando ulteriore consumo di suolo nelle periferie?
Pensando alla realtà del nostro Paese, la vera sfida del prossimo futuro è proprio quella di ristabilire gli equilibri tra i diversi centri urbani – rilanciando le aree interne e le piccole realtà virtuose come i borghi storici -, di pensare a un territorio urbanizzato costituito da molteplici polarità connesse da una rete infrastrutturale, sia materiale che immateriale, che sfrutta le nuove tecnologie informatiche mettendole a sistema con precise finalità, come questo periodo di pandemia ci sta insegnando. Una sfida sulla quale dovremmo impegnarci tutti e che dovrà essere considerata obiettivo prioritario delle politiche urbane dei prossimi anni: solo così potremmo avviarci verso una fase di vero sviluppo sostenibile.
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