Ed eccoci arrivati al famigerato autunno. L’autunno è una stagione di ripartenze. Dopo la pausa estiva. Dopo le ferie. Dopo il caldo, dopo il viaggio, dopo la leggerezza consentita o consigliata, del mitico ombrellone. Finché si è in età scolastica, l’autunno è il dovere che torna, dopo le lunghissime vacanze. Si fanno buoni proponimenti, alla fine dell’estate: basta carboidrati la sera, niente vino, una camminata tutti i giorni, la mattina, prima di andare in ufficio, prima di aprire il negozio. È come comprare un quaderno nuovo, e annotare sulla prima pagina “Si ricomincia!”. Con la bella calligrafia che si riserva all’inizio dei quaderni che poi si fanno, per la fretta, sempre più disordinati.
Insomma: è un appuntamento con la buona volontà, l’affacciarsi dell’autunno. Più della notte di San Silvestro che chiude un anno e ne apre simbolicamente un altro. L’autunno è annidato nel nostro inconscio, come il ricordo del primo giorno di scuola. Quella leggera eccitazione, quella curiosità di vedere chi c’è fra i nuovi, o come sono cambiati i vecchi compagni. Ve la ricordate quella sensazione? Io la chiamo “la sindrome del primo ottobre” (era al primo ottobre che ricominciava la scuola quando ero piccola io) e me la godo tutti gli anni.
Quest’anno non ci riesco. Non riesco a ingozzarmi di proponimenti. Quest’anno, fra la fine dell’inverno e la primavera, è successo qualcosa di troppo grave e sconvolgente, prima che cadesse su tutti noi il relativo balsamo dell’estate: la pandemia, l’obbligo di non andare al lavoro, la perdita del lavoro, l’obbligo di resistere e aspettare. L’obbligo di riposare, anche se non puoi permetterti di non lavorare e il riposo coatto si tinge d’ansia. Questo autunno non si presenta come aria fresca che mette voglia di riprendere le attività dopo la calura. Questo autunno, l’autunno 2020, è crisi e incertezza, povertà e paura. Tuttavia siamo qui. In città. Ai nastri di partenza, in attesa di iniziare una corsa che non sappiamo dove ci porterà.
Vorrei darvi qualche dritta che riduca l’angoscia, che metta da parte l’incertezza, che consenta di dominarla. Sono a corto di argomenti.
Mi ha scritto Donata, che possiede un negozio di abiti e oggetti molto belli, in una cittadina turistica, in Sicilia. Quando ha potuto riaprire ha riaperto, ha richiamato al lavoro le sue due commesse. I turisti sono arrivati, ma erano meno della metà. Soltanto turismo interno, al massimo un pugno di francesi e qualche tedesco. I villeggianti, quello zoccolo duro che ritorna lì ogni anno in vacanza, hanno comperato poco, meno della metà dell’anno precedente. Le spese correvano, le entrate erano talmente diminuite che l’unica forma di guadagno sarebbe stata restare chiusi, eliminando le perdite. Perché ha riaperto? Perché è la sua vita. Perché aveva tutta una nuova collezione comprata in Indonesia da mostrare, da vendere. Perché le piace il suo lavoro.
Per lo stesso motivo hanno riaperto la maggior parte degli alberghi, ma il “tutto esaurito” di tutti gli altri mesi di agosto non l’hanno raggiunto. Il nostro è un Paese che può vendere soltanto bellezza. Sole, mare, cibo, città d’arte, montagne, laghi, borghi antichi, colline coperte di vigneti. Siamo magnifici dispensatori di superfluo, siamo un Paese estivo, da vacanza, affascinante e pieno di problemi. Per campare probabilmente è meglio il Nord Europa, ma la dolcezza del vivere abita qui.
Per i milioni di italiani che vivono di turismo, da chi affitta due camere vicine al Vaticano come bed & breakfast a chi possiede un bar, un ristorante, un campeggio sarà possibile riprendersi da questa estate senza nordamericani, grazie all’arroganza di Trump? Senza cinesi, giapponesi e coreani? Fra chi non ha voluto venire in Italia perché aveva paura e chi è stato respinto dall’Italia perché faceva paura, l’assenza dei viaggiatori si è fatta sentire. Riusciremo a riprenderci?
Io, nel mio piccolo, non ho trascorso i mesi estivi con la mia nipotina, per la prima volta da quando è nata, quattro anni fa.
Mi sono consolata aggiungendo un ultimo capitolo al piccolo libro che ho scritto su di lei, sui primi tre anni di vita di un essere umano, sul sentimento della “nonnità”, un capitolo sui danni affettivi della pandemia: lei vive in Texas, non ha potuto partire. Si intitola Tempo con Bambina (Bompiani). Mi ha consolata, ma non abbastanza.
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