Oggi circa 90 milioni di rifugiati, in fuga da guerre, violenze e persecuzioni vivono in paesi pesantemente esposti alle catastrofi naturali. Per loro la pace è un miraggio sempre più lontano
Dei 123 milioni di rifugiati in fuga dal loro paese per guerre o altre catastrofi tre quarti vivono in aree fortemente colpite dal cambiamento climatico. Lo rivela il rapporto No Escape (Senza scampo) dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). In pratica una persona su 67 in tutto il mondo è costretta a spostarsi, abbandonando la sua casa; quasi il doppio rispetto a solo un decennio fa. Ma spostarsi per la maggior parte di loro significa non trovare più un posto sicuro. La crisi climatica infatti colpisce maggiormente proprio le regioni del mondo che ospitano chi scappa in cerca di un futuro migliore.
L’ intreccio tra conflitti e disastri naturali
La metà dei rifugiati, secondo i Rapporto, vive infatti in luoghi colpiti dall’impatto combinato di pericoli e conflitti legati al clima, Myanmar, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Unhcr avverte che entro il 2040 il numero di Paesi che affronteranno rischi estremi legati al clima passerà da 3 a 65, la maggior parte dei quali ospiterà rifugiati e sfollati interni. Prevede poi che entro il 2050 la maggior parte dei campi per i rifugiati sperimenteranno il doppio dei giorni di caldo estremo. L’effetto dell’aumento delle temperature inciderà sulla disponibilità di risorse naturali come l’acqua dolce e i terreni fertili, rischiando di esacerbare le tensioni sociali. Allo stesso tempo le catastrofi climatiche impediscono il ritorno ad una convivenza pacifica.
Sudan, un caso esemplare
L’interazione tra cambiamenti climatici, conflitti e sfollamenti è particolarmente visibile nel Sahel e nel Corno d’Africa. Il conflitto in corso in Sudan ha causato lo sfollamento di oltre 11 milioni di persone, di cui oltre 2 milioni ospitate nei paesi vicini, quasi 700.000 milioni in Ciad a ottobre 2024. Nonostante sia uno dei paesi più vulnerabili al mondo ai cambiamenti climatici, il Ciad ha mantenuto le porte aperte ai rifugiati provenienti dal Sudan e da altri paesi. Nel Ciad orientale, dove si trovano molti rifugiati, forti piogge e inondazioni distruggono regolarmente rifugi e infrastrutture di base e contaminano l’acqua dolce (Unicef, 2024). A ciò si aggiungono i rischi per la sicurezza minacciata da bande armate lungo il confine tra Sudan e Ciad che limitano il supporto umanitario.
Le destinazioni dei rifugiati
Come in Africa, milioni di rifugiati e sfollati, rischiano di non trovare più un posto sicuro nel quale andare. Il 38% dei venezuelani, ovvero quasi 3 milioni di persone, si è trasferito in Colombia, un paese già alle prese con gravi pericoli naturali. L’86% degli afghani rifugiati all’estero ha cercato rifugio in Iran e Pakistan, paesi con rischi climatici estremamente elevati. Provenienti da uno dei paesi più vulnerabili ad altissimo rischio climatico, il 72% degli sfollati del Myanmar, si trovano in Bangladesh. Un paese dove i pericoli naturali sono classificati come estremi. La crisi climatica spesso spinge popolazioni già vulnerabili da un pericolo all’altro.
Intervenire sul clima per sanare le ingiustizie
Attualmente, informa l’agenzia delle Nazioni Unite, gli Stati estremamente fragili ricevono circa 2 dollari a persona in finanziamenti annuali per i piani di adattamento, una cifra davvero inconsistente per garantire cibo, acqua, assistenza e un’abitazione sicura. Inoltre, gli investimenti che raggiungono gli Stati più vulnerabili, per oltre il 90% vanno alle capitali, raramente raggiungono le aree più periferiche. Per sanare le ingiustizie, che rischiano di aumentare la crisi umanitaria mondiale, l’appello dell’Onu va ai paesi maggiormente responsabili del cambiamento climatico, che sono anche quelli in grado di intervenire sulle emissioni di carbonio. Il paradosso infatti è che a pagare il prezzo più alto siano le popolazioni meno responsabili delle emissioni di gas serra a livello globale.
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