È uno dei dossier più caldi sul tavolo del Governo, ma anche la grande incompiuta degli ultimi 30 anni. Riflettori accesi su nuovi possibili meccanismi di flessibilità in uscita che compenseranno la fine di Quota 100. Ma è realistico e conveniente puntare sull’uscita anticipata dal mondo del lavoro?
Il Governo è al lavoro su una nuova riforma delle pensioni per il “dopo-Quota 100”. Una misura di pensionamento anticipato che deve la sua fama più al dibattito politico che l’ha accompagnata durante il triennio di sperimentazione che non al suo impatto effettivo.
Secondo i dati del XX Rapporto Annuale Inps, a pensionarsi con Quota 100 sono stati 180.000 uomini e 73.000 donne nel biennio 2019-20, a fronte di 1,4 milioni di nuovi pensionati registrati nel 2020. Ma, soprattutto, fallimentare si è rivelata l’idea che potesse favorire il ricambio generazionale nelle imprese. «Questo perché – spiega Marco Abatecola, responsabile del Settore Welfare Pubblico e Privato di Confcommercio-Imprese per l’Italia – l’idea per la quale, se un lavoratore va in pensione, un lavoratore più giovane entra nel mercato del lavoro, è un’idea assolutamente obsoleta. Il sistema economico e produttivo non è un sistema di porte scorrevoli dove se uno esce, un altro entra. Basti pensare che in Europa i Paesi che hanno la più alta percentuale di partecipazione al lavoro delle generazioni più anziane sono anche quelli con minore disoccupazione giovanile».
Esperienze che supportano proposte come quella del presidente Istat, Gian Carlo Blangiardo, di assicurare la sostenibilità del sistema pensionistico e l’invecchiamento attivo introducendo forme flessibili di permanenza al lavoro dei senior piuttosto che di pensionamento anticipato. Ipotesi che non sono incoerenti con la garanzia della flessibilità in uscita dal mercato del lavoro. Anzi, possono contribuire sul lungo periodo alla tenuta del patto generazionale «che è alla base di qualsiasi sistema previdenziale a ripartizione come il nostro, dove – continua Abatecola – le persone in età da lavoro pagano i contributi non per l’accumulo reale della loro pensione futura, ma per pagare sostanzialmente le pensioni in essere».
Oggi facciamo i conti con un’incidenza della spesa pensionistica sul PIL del 17% contro una media Ocse del 13%, e la spesa previdenziale rappresenta più di un quarto della spesa pubblica totale. Per assicurare la sostenibilità del sistema previdenziale di lungo periodo «c’è bisogno non solo di allargare la base occupazionale giovanile – aggiunge – ma anche che le persone più anziane rimangano il più possibile al lavoro, purché siano ovviamente in condizione di lavorare».
Come? Ci fornisce alcune ipotesi concrete Luca Giustinelli, direttore Area Patronato 50&PiùEnasco: «La trasformazione dei rapporti di lavoro dei più maturi in part-time ma con il riconoscimento di una contribuzione figurativa piena ai fini pensionistici, e per le aziende di una decontribuzione per i lavoratori neo assunti collegati alla trasformazione dei contratti dei più anziani, potrebbe contribuire ad ammortizzare l’impatto dell’innalzamento dell’età pensionabile, dando vivacità ad un mercato del lavoro altrimenti “bloccato”». Peraltro, oltre Quota 100, «esistono già nell’ordinamento pensionistico altre forme di flessibilità in uscita – ricorda Giustinelli – per particolari categorie di lavoratori: Opzione donna, Ape Sociale, lavoratori precoci, lavori gravosi, lavori usuranti, Isopensione, Contratto di espansione. Anziché introdurre ulteriori forme di pensionamento, si potrebbero rendere strutturali le misure già esistenti, estendendole ad altre categorie di lavoratori come gli autonomi».
Ma la riforma delle pensioni non è solo questione di rapporti fra generazioni, poiché chiama in causa anche disuguaglianze intra-generazionali. Disuguaglianze che – spiega Giustinelli – «dipendono in gran parte dalle innumerevoli riforme pensionistiche succedutesi dal 1992 ad oggi e che hanno creato “scalini” e “deroghe”: trovarsi al di sopra o al di sotto dello scalino o poter usufruire o meno di una deroga produce condizioni differenziate, che spesso è difficile far comprendere a chi si sente penalizzato rispetto ad un parente, un amico, un conoscente, la cui situazione sembra quasi del tutto sovrapponibile alla sua. Per non parlare delle “sacche” di privilegi previdenziali che in passato hanno riguardato alcune specifiche categorie lavorative». Fra le riforme incompiute, quella “Dini” del 1995, in particolare, contrappone oggi lavoratori “misti” e “puri”, creando una realtà complessa ed eterogenea che durerà almeno fino al 2060, secondo le stime dell’Ufficio Parlamentare di Bilancio. I “misti” hanno iniziato a lavorare prima del 1995 e dunque calcolano la pensione in parte con il sistema retributivo, che lega l’assegno alle retribuzioni percepite, in parte con il sistema contributivo, che prende come riferimento i contributi versati, a differenza dei “puri”, entrati nel mercato del lavoro dopo il 1995 e per i quali vige unicamente il sistema contributivo. Quando si invoca la flessibilità in uscita «spesso ci si scorda che il sistema è contributivo “sulla carta” – sottolinea Abatecola – ma la gran parte dei lavoratori sono ancora nel sistema retributivo, quindi se io permetto di anticipare l’uscita di un lavoratore del sistema retributivo rischio di creare un danno per l’equilibrio delle casse del sistema previdenziale. Perciò qualsiasi ipotesi di flessibilità deve tenere fermi questi parametri e quindi fondarsi su un calcolo contributivo della pensione».
Per il professor Sandro Gronchi, ordinario di Economia Politica presso l’Università di Roma “La Sapienza”, non è semplice orientarsi in questo “contributivo all’italiana”. Infatti, «nell’ancor lunga fase transitoria – spiega – i puri potranno andare in pensione a 64 anni se l’importo maturato non è inferiore alla soglia di 2,8 volte l’assegno sociale, mentre i misti, nelle stesse condizioni, dovranno attenderne 67. Inoltre i puri, che a 67 anni non riescono a vantare un’anzianità contributiva di 20, possono proseguire l’attività lavorativa mentre i misti, nelle stesse condizioni, devono rassegnarsi a lasciare il lavoro senza una pensione. Infine, a 67 anni d’età e 20 di contributi, i misti possono andare in pensione liberamente, mentre i puri possono farlo solo se l’importo spettante non è inferiore alla soglia di 1,5 volte l’assegno sociale». Secondo il professor Gronchi serve dunque innanzitutto “un generale riordino dei requisiti d’accesso alla pensione che tuteli equità e sostenibilità al contempo”. Qui entrano in gioco i complicati “coefficienti di trasformazione”. «Nel sistema contributivo il coefficiente di trasformazione – chiarisce il professor Gronchi – “ambisce” a trasformare ogni euro versato in una rendita unitaria equivalente, spalmandolo sulla durata attesa della pensione cui concorrono le speranze di vita del pensionato e del suo superstite in caso di pensione di reversibilità. Tuttavia, le speranze di vita, sconosciute ex ante, sono stimate guardando al passato, cioè all’esperienza di coorti di pensionandi precedenti. I coefficienti stessi soffrono quindi di “obsolescenza” che si risolve nella loro sopravvalutazione, e quindi in pensioni superiori ai contributi versati». Inoltre «l’obsolescenza cresce al diminuire dell’età. Pertanto, l’anticipo del pensionamento implica l’uso di coefficienti più obsoleti che costano perché allargano il divario fra la pensione e i contributi versati». Secondo il professor Gronchi, invece di potenziare la pensione anticipata o di anzianità, «la flessibilità andrebbe, piuttosto, cercata “verso l’alto”. La fascia d’età quadriennale compresa fra 64 e 67 anni, estesa alla generalità dei lavoratori, consentirebbe una flessibilità adeguata limitando al contempo l’obsolescenza dei coefficienti». Ancora una volta si dovrebbe guardare all’Europa: «Per come sono strutturati – sottolinea Abatecola – i coefficienti incentivano sostanzialmente il prepensionamento, cioè molto spesso all’avvicinarsi di una loro modifica assistiamo a un esodo di lavoratori che hanno paura di una penalizzazione previdenziale. In altri Paesi, come la Svezia, i coefficienti sono invece assegnati per coorti di età e a prescindere da quando si andrà in pensione». Garantendo dunque quella certezza delle regole che è fondamentale per qualsiasi riforma efficace. «Oggi ci sono troppe modalità di pensionamento che rendono difficile la programmazione previdenziale non solo per i lavoratori – stigmatizza Abatecola – ma anche per le imprese che non riescono a definire i piani di sostituzione dei lavoratori, a danno anche del ricambio generazionale. Ci auguriamo quindi che la prossima riforma sia fondata su chiarezza e uniformità delle regole, anche tra lavoro autonomo e dipendente, e soprattutto su una stabilità di queste regole». Guardando con più attenzione ai «giovani e alla proiezione delle loro future pensioni – aggiunge Giustinelli -, i cui importi, per chi oggi ha difficoltà a raggiungere carriere stabili e stipendi adeguati, potrebbero non essere in grado di garantire le primarie esigenze di vita».
© Riproduzione riservata