Il parlamento israeliano ha approvato a luglio la prima parte di una controversa riforma della giustizia. Mentre il Paese è scosso dalle proteste Netanyahu promette un accordo con l’opposizione entro novembre
Lo scorso 24 luglio la Knesset, il parlamento monocamerale dello Stato d’Israele, ha approvato con 64 voti su 120 la prima parte della contestata riforma della giustizia messa a punto dal ministro Yariv Levin. Il governo conservatore presieduto da Benjamin Netanyahu ha fatto quadrato intorno al provvedimento, presentandolo come uno strumento indispensabile per consentire all’esecutivo di esercitare appieno il suo mandato e limitare le ingerenze indebite della Corte Suprema nella vita politica. Di tutt’altro avviso è l’opposizione, che lamenta un affronto allo stato di diritto e ha lasciato l’aula del parlamento in segno di protesta al momento del voto. Sulla stessa linea pare un’ampia fetta del Paese, che ha inscenato negli ultimi mesi contestazioni estese ed eccezionali.
La norma approvata a luglio riguarda il cosiddetto “principio di ragionevolezza”, che ha finora consentito alla Corte Suprema di sovvertire provvedimenti del governo ritenuti “irragionevoli”, cioè contrari a criteri di buonsenso e opportunità. Il caso di scuola è l’allontanamento dall’esecutivo di Arieh Deri, imposto dalla Corte e subito da Netanyahu, a causa delle plurime condanne per reati fiscali. La posta in gioco è ovviamente più ampia e insieme più sottile: alcuni osservatori rimarcano che, mancando in Israele una costituzione scritta (esistono solo “leggi fondamentali” che disciplinano i diritti dei cittadini e i loro rapporti con lo Stato), la funzione di interpretazione e controllo della Corte Suprema rappresenta un indispensabile contrappeso al potere politico.
La riforma giudiziaria prevede, tra l’altro, una modifica della commissione che seleziona i giudici della Corte, nel senso di aumentare i membri di nomina politica fino a farne la maggioranza assoluta del collegio. Per calmare gli animi Netanyahu ha promesso che avvierà colloqui con le opposizioni in modo da «raggiungere un accordo generale» entro la fine di novembre.
Nel frattempo Israele vive una delle più gravi crisi interne della sua storia. Proteste, scontri con la polizia e arresti, blocchi delle infrastrutture scuotono un Paese che si scopre diviso. Per la prima volta anche i militari hanno preso posizione: un centinaio di alti funzionari nel settore della sicurezza ha scritto a Netanyahu per chiedergli di ritirare la riforma, mentre migliaia di riservisti minacciano di lasciare l’esercito se il disegno di legge andrà in porto. In forma eclatante, Israele affronta il dilemma di tutte le “democrazie occidentali”: l’attrito fra esigenze di governabilità (vere o presunte), indipendenza della magistratura e sistema di garanzie dei cittadini.
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