Le trasformazioni in atto chiedono di ricentrare il rapporto fra sostenibilità lavorativa delle generazioni over e uguaglianza sociale. Occorrono misure che facilitino la cultura dell’age management
La lunga fase di transizione demografica che l’Italia sta attraversando insieme alla maggior parte degli altri paesi avanzati – caratterizzata com’è noto da bassa natalità e progressivo aumento dell’aspettativa di vita – ha esercitato da tempo una profonda influenza anche sul mondo del lavoro.
Nel nostro paese, le croniche difficoltà di ingresso dei giovani nel sistema produttivo e il basso livello di partecipazione femminile si sono sommate al progressivo restringimento della popolazione in età da lavoro (quella convenzionalmente compresa nell’intervallo fra 15 e 64 anni), originato dal rimpicciolimento delle generazioni avviate a sostituire in prospettiva i cosiddetti baby boomers (cioè gli appartenenti alle coorti più numerose, nate grosso modo fra il 1946 e il 1964). L’allarme seguito a queste tendenze evolutive ha spinto da tempo i nostri governi, come quelli degli altri principali partner europei, a reagire favorendo l’allungamento della vita lavorativa, sia per salvaguardare la stabilità dei sistemi pensionistici pubblici, sia per fare fronte ai sempre più frequenti fenomeni di scarsità di manodopera in specifici settori e profili professionali.
Come mostrano costantemente i dati diffusi dall’Istat (Istat, 2023, pp. 78-79), questo processo ha portato alla crescita progressiva degli over 50 fra gli occupati di tutti i settori economici, sia pure in maniera piuttosto differenziata, portando a far convivere nello stesso ambiente lavorativo anche quattro o cinque generazioni diverse di lavoratori. Questa elevata differenziazione anagrafica – e quindi sociale – della forza lavoro occupata non si è però automaticamente tradotta in un arricchimento complessivo del capitale umano disponibile per favorire lo sviluppo e la crescita delle organizzazioni interessate. Ancora nel 2020 l’Ocse (Oecd, 2020) paventava infatti che la diversità generazionale all’interno delle economie più avanzate potesse rappresentare un ostacolo, prima che una risorsa per la competitività, segnalando come molto resti da fare a riguardo, sia a livello di politiche pubbliche che di prassi manageriali.
Nel caso italiano, la forza lavoro occupata – la cui componente maschile al di sopra dei 35 anni è risultata, come sopra ricordato, tradizionalmente sovradimensionata – è stata costretta dal ciclo di riforme previdenziali iniziate negli Anni ’90 a fare i conti con la restrizione crescente degli schemi che precedentemente avrebbero consentito, in numerosi casi, un ritiro volontario anticipato. In tal modo, il sistema di welfare italiano ha progressivamente abbandonato quella che la sociologa francese Guillemard ha definito “la cultura del ritiro anticipato” (Guillemard, 2013, pp.64-68), per approdare ad una situazione in cui una larga parte di lavoratori e lavoratrici si è venuta a trovare, non per propria volontà, sostanzialmente bloccata nel mercato del lavoro.
Questa situazione di prolungamento non desiderato della condizione di occupato può entrare in attrito, come è più sovente il caso della componente femminile, con le esigenze di conciliazione fra lavoro e vita familiare, connesse sia alla maggiore permanenza dei giovani in famiglia, sia alla necessità sempre più frequente di assistere genitori o parenti non autosufficienti in età avanzata. D’altro canto, sul versante previdenziale, storie contributive brevi e frammentate, causate da una pregressa posizione di debolezza e precarietà sul mercato del lavoro, anche qui più spesso caratteristiche delle lavoratrici, suggeriscono che le prossime generazioni di over 65 vedranno aumentare significativamente il rischio di povertà in età avanzata, che attualmente vede ancora gli anziani mediamente meno esposti rispetto alle altre classi di età della popolazione italiana.
Come ricordato recentemente dal demografo Alessandro Rosina (Rosina, 2024), per fronteggiare efficacemente l’impatto economico di questa transizione demografica, i paesi avanzati – e fra loro l’Italia è certamente un caso paradigmatico – devono senza dubbio lavorare per sostenere la ripresa della fecondità e alimentare la propria forza lavoro, favorendo l’immigrazione legale di donne e uomini auspicabilmente con i livelli di preparazione e qualificazioni adeguati alle esigenze dei sistemi produttivi. Dall’altro lato possono però perseguire una sorta di secondo dividendo demografico, aumentando la partecipazione lavorativa di giovani e donne con livelli di qualificazione elevati e valorizzando la produttività della componente più matura della forza lavoro, aumentando, tra le altre cose, la qualità e il benessere della loro longevità lavorativa e in generale agendo su tutte le dimensioni utili a creare un ambiente organizzativo age friendly.
Per quanto riguarda questa seconda opzione, occorre operare avendo in mente un concetto ampio di age management, che, come afferma lo studioso inglese Alan Walker (Walker, 2005, p. 685), comprenda in primo luogo il livello delle politiche pubbliche e del lavoro, che forniscono alle parti sociali i riferimenti all’interno dei quali confrontarsi e operare le proprie scelte, individuali e collettive; in secondo luogo, le prassi di gestione delle risorse umane attuate nell’ambito delle singole organizzazioni; in terzo luogo, il sistema delle relazioni interpersonali e intergenerazionali che si sviluppano quotidianamente nell’ambito dei diversi gruppi di lavoratori e lavoratrici.
A quest’ultimo riguardo è opportuno fare due osservazioni. La prima è relativa al fatto che, come messo in evidenza tra gli altri dalle ripetute indagini condotte dall’Isfol e dall’Inapp (Isfol, 2015; Inapp, 2017; Aversa, Checcucci, Iadevaia, 2024), la percezione che i datori di lavoro – prevalentemente privati, ma anche pubblici – hanno dei lavoratori maturi porta ad identificare narrazioni apparentemente contrastanti. Come ricordato dalle Nazioni Unite (Unece 2919, p. 4), a seconda dei casi possono manifestarsi, nei confronti dei lavoratori maturi, stereotipi sia negativi che positivi. Fra i primi si possono elencare ad esempio una più bassa motivazione e produttività; la resistenza al cambiamento; la mancanza di adattamento; una scarsa propensione all’apprendimento; un maggior costo del loro lavoro; peggiori condizioni di salute che danno origine a più giorni di malattia. Fra gli stereotipi positivi, che possono risultare comunque insidiosi, possiamo trovare minore assenteismo; affidabilità e impegno; grande capacità relazionale e di mentorship; attitudine alla leadership; capacità di adattamento.
Uno degli effetti più evidenti di tale antinomia parrebbe essere, fra gli altri, la scarsa propensione dimostrata da questi stessi datori di lavoro ad investire nell’aggiornamento e rafforzamento delle competenze della loro forza lavoro più matura. Un atteggiamento che presumibilmente potrebbe rafforzare la già scarsa propensione degli adulti italiani in età più avanzata a partecipare ad iniziative formative, a paragone dei loro coetanei europei.
La seconda osservazione riguarda il fatto che, ad eccezione delle grandi imprese, il tema dell’age management sembra essere il grande assente nella negoziazione fra le parti sociali, come mostrato ancora dalle indagini Inapp, soprattutto nell’ambito della contrattazione di secondo livello e ancora in prevalenza nelle piccole e medie imprese. In tale contesto, sembra urgente riflettere in quale modo il decisore pubblico possa sviluppare misure che facilitino l’affermarsi e il consolidarsi di una cultura della gestione dell’età e delle diversità nelle organizzazioni pubbliche e private, superando per l’appunto un dibattito pubblico troppo spesso imprigionato nella dicotomia fra prolungamento “costretto” della vita professionale e sfruttamento di ogni strumento ancora disponibile per il ritiro anticipato (come le varie “quote”, l’isopensione, l’esodo incentivato o la staffetta generazionale).
Le trasformazioni in corso ci chiedono di ricentrare in maniera chiara il dibattito sul rapporto fra sostenibilità del lavoro in età più avanzata ed eguaglianza sociale, avendo sempre in mente che, come argomentato da Chiara Saraceno, l’età, oltre che un dato socio-anagrafico, è una condizione socialmente costruita, nel cui contesto le norme e le aspettative di comportamento socialmente condivise possono anche non coincidere con le caratteristiche, le aspettative e i progetti di vita del singolo individuo (Saraceno, 2001).
Poiché infine la questione delle diseguaglianze di genere rappresenta una dimensione chiave per affrontare le problematiche connesse alla longevità lavorativa, occorre elaborare strategie sinergiche con linee di policy già avviate in quest’ambito, ultima fra tutte quella relativa all’applicazione della Direttiva europea 970/2023, volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne.
PER APPROFONDIMENTI
-Aversa M., Checcucci P., Iadevaia V. (2024), Invecchiamento della forza lavoro nelle imprese italiane, seminario di presentazione dell’indagine INAPP presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano, 27 novembre
-Guillemard A. (2013), Prolonging working life in an aging world: A crossnational perspective on labor market and welfare policies to-ward active aging, in John Field, Ronald J Burke, Cary L Cooper (edi-ted by); The SAGE Handbook of Aging, Work and Society, SAGE, Los Angeles, London, New Delhi, Singapore, Washington D. DC
-Inapp, Checcucci P., Fefè R., Scarpetti G. (a cura di) (2017), Età e invecchiamento della forza lavoro nelle piccole e medie imprese italiane, Inapp Report n.1, Roma, Inapp
-Isfol, Aversa M.L., D’Agostino L., Parente M. (a cura di) (2015), L’age management nelle grandi imprese italiane. I risultati di un’indagine qualitativa, Roma, Isfol
-ISTAT (2023), Rapporto annuale 2023. La situazione del Paese, Roma, 7 luglio
-OECD (2020), Promoting an Age-Inclusive Workforce: Living, Learning and Earning Longer, Paris, OECD Publishing
-Rosina A. (2024), Popolazione: chi è favorito dai numeri, 8 marzo
-Saraceno C. (a cura di) (2001), Età e corso della vita, Il Mulino, Bologna
-United Nations Economic Commission for Europe (2019), Combating ageism in the world of work, UNECE Policy Brief on Ageing No. 21, Fe-bruary
-Walker A. (2005), The emergence of age management in Europe, International Journal of Organisational Behaviour, Volume 10 (1), 685-697
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