Hanno deciso di inforcare la bicicletta per occuparsi di consegne a domicilio e integrare così il loro reddito. La storia di due donne, Laura e Barbara.
«Poverina, una signora così anziana che gira in bici. Chissà che vita difficile». È il pensiero che molti avranno fatto incrociando per le strade di Milano Laura Morelli. A raccontarcelo è lei stessa: 59 anni, rider.
Ha sperimentato in prima persona cosa significhi Gig economy, ossia guadagnarsi da vivere o integrare il proprio reddito facendo lavori saltuari, senza alcun contratto a garanzia e solo quando si viene chiamati o, più in generale, quando si può. «È un’esperienza molto spinta perché hai tempi stretti da rispettare, un percorso da seguire e del cibo – quindi materiale fragile – da trasportare». Nel suo caso bevande, visto che ora consegna bottiglie di vino e, più in generale, alcolici.
«Ho iniziato il 14 gennaio del 2019 e penso di aver fatto almeno 10mila chilometri perché ho lavorato tanto. Ho cambiato diverse aziende della Gig economy. Il fine settimana si guadagna di più ma, se in media lavori quattro giorni a settimana, per 4/5 ore al giorno, ti porti a casa 600 euro».
Pochino, no?
Sette euro l’ora. Decisamente poco.
E lavorare durante la pandemia da Covid come è stato?
Come essere improvvisamente Alice nel paese delle meraviglie. Una città vuota. I suoni, gli uccellini.
Una risposta che può sorprendere se non fosse che Laura ha scelto di fare questo lavoro e lo ha fatto per un tempo determinato. A parlarci bene, infatti, si scopre che è un’artista e si occupa di indagine estetica. Ha affrontato quello che poi si è trasformato in un anno di lavoro in un’occasione per intraprendere un suo percorso di sperimentazione artistica. «Cercavo bellezza, apparentemente difficile da trovare in un ambiente di produzione. Eppure l’ho trovata, per la strada, mentre attendevo di ricevere l’ordine da consegnare o mentre attraversavo la città». Così ha fotografato, registrato, filmato qualsiasi cosa la attraesse: dal logo con immagine femminile di un ristorante cinese alle conversazioni in attesa al semaforo. Il tutto confluito in un progetto chiamato “Glovers”, dal nome dei rider che lavorano per uno dei più importanti vettori, ma che porta in sé anche il termine “Love”. E dunque, amore.
Un bel vantaggio, sicuramente, rispetto ai tanti che invece il rider devono farlo per forza: perché è l’unica fonte di reddito.
Non sono mai stata ricca e se ho potuto vivere questa esperienza è perché ci ho guadagnato qualcosina. In più, per dieci anni sono stata capocantiere in imprese di restauro e lì ho guadagnato il necessario per acquistare due immobili dai quali oggi ho una piccola rendita. Nella mia vita, mi sono sempre trovata a fare cose diverse. Prima ci soffrivo, non perché non mi piacesse ma perché l’ambiente sociale circostante richiedeva, come modello, il lavoro unico. Solo che a me questa cosa dell’identità unica è sempre stata stretta. Oggi vivo a Milano in cohousing: 100 mq che condivido con una coppia e un singolo.
Diversa, ma accomunata dall’età e dall’amore per la bicicletta, l’esperienza di Barbara Vidor, 56 anni. Vive a Landriano, in provincia di Pavia, e fa la rider da cinque anni. «A Landriano carico la bici in auto e lavoro a Milano. Quindici chilometri. Trovo parcheggio e da lì parte tutto il gioco». Eppure, di mestiere principale, Barbara fa altro: «Io sono una barista da undici anni. Ho una passione grandissima che è quella del cavallo. Perciò ho chiesto un part time – lavoravo troppo per potermi prendere cura del cavallo e gareggiare con esso – e, quando le spese hanno iniziato a salire, ho integrato il reddito lavorando come rider. Scotch, il mio cavallo, è un Sella francese: mi costa 350 euro al mese. Ed è esattamente quanto riesco a guadagnare consegnando cibo a domicilio».
Ma non è faticoso a 56 anni?
Ho fatto tanti sport – prima del cavallo, ho gareggiato nello sci slalom gigante, windsurf, kitesurf e skateboard – e perciò sono molto allenata. In più, il lavoro di rider mi lascia tempo libero perché do disponibilità a seconda di quando ho possibilità di lavorare. Sono una “jobby”, ossia iscritta alla piattaforma Jobby, con la quale trovi il lavoro quando ti serve. Si trovano anche lavoretti per la casa, offerte come domestica o se serve di tinteggiare. Io avrei anche il brevetto per montare i televisori, ma poi non l’ho mai usato.
In bici, lei dice: «È come se fossi in palestra. Non la pago e mi mantengo in forma».
Pensi che continuerai a fare questo lavoro anche in futuro?
Sì, ho interrotto solo durante il Covid. Mi sono fermata perché avendo già un lavoro ho preferito lasciare le consegne a chi ne aveva veramente bisogno e vive solo di quello.
Quindici giorni ferma. Poi, non ce l’ha fatta più. È tornata in sella alla sua bicicletta. E a Scotch.
Senza Diritti. Una categoria da tutelare
Per mesi la politica si è interrogata su come debba essere normato il mondo dei rider, i lavoratori senza diritti né tutele che consegnano cibo a domicilio rischiando la propria incolumità nel traffico cittadino. In tanti raccontano la pesantezza di stare fuori casa dieci ore al giorno, percorrendo anche 80/100 chilometri in bicicletta, di turni di lavoro massacranti, con compensi che variano a seconda delle ore di lavoro e delle consegne. Sempre al di sotto del necessario per andare avanti. Una condizione così complessa che è finita nel mirino della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Milano con l’accusa di caporalato a un noto vettore, in particolare per lo sfruttamento dei rider. Tra le testimonianze raccolte, quella di un fattorino che ha dichiarato: «La mia paga era sempre di 3 euro a consegna indipendentemente dal giorno e dall’ora». A essere sfruttati, migranti provenienti da contesti di guerra, richiedenti asilo e persone che dimoravano in centri di accoglienza temporanei.
© Riproduzione riservata