È arrivata, finalmente, l’estate. Avevo paura che non sarebbe spuntata mai più, con il suo carico di gioie immaginate.
Un gelato al sole, nuotare con il viso dentro l’acqua, respirare il salmastro, camminare in montagna, l’odore dell’erba tagliata, ballare sfrenatamente – alla faccia dell’età – sotto una luna tonda e gialla, all’aperto, attenta alle goccioline, non troppo vicina agli altri ballerini, ma posseduta dal ritmo che batte come un cuore selvaggio.
È stato lungo come una quaresima, l’inverno. È durato per tutta la primavera: bizzosa, piovosa, ventosa. Ci ha stremati tutti con i bollettini serali, i conti dei morti, questa funebre aritmetica, cui non pensavo che ci saremmo abituati fino a non provare più neppure la tristezza dovuta. Verso maggio abbiamo ricominciato a vedere gli amici (pochi, tamponati, distanti), si cenava alle sette, scappavano prima delle dieci. E per tutto il tempo concesso, a tavola, dalla guerra al Covid, non si faceva che parlare di malattie. Di vaccini. Si confrontavano sintomi, si discuteva di varianti. Ci si misurava la febbre da sani, bastava dover andare in banca o dall’oculista. Io risultavo quasi sempre morta: 35 e 7, non arrivo neanche a 36. «È perché sei un animale a sangue freddo», mi diceva mio marito, pensando ai serpenti. Ad un certo punto ho temuto che non ne saremmo più usciti da quel tunnel di malattia immaginata, da quel nemico invisibile a cui opporre disciplinate rinunce.
Per la prima volta, io che mi sono sempre sentita una “vecchia giovane”, mi sono sentita precipitare in una categoria che non mi somiglia: “anziana fragile”, ha scritto la signorina che mi intervistava prima di sottopormi alla prima dose di AstraZeneca. L’ho guardata malissimo, ma aveva ragione. Anagraficamente appartengo alla categoria.
Non sono fragile, né mi ci sento, ma sono anziana, e pare che i due aggettivi vadano insieme meccanicamente. Anche questa etichetta avvilente mi ha prolungato l’inverno. Ma poi è finita. E adesso, finalmente, eccomi qua, sono di nuovo una “simpatica vecchia pazza dalle gambe muscolose”. E soprattutto sono di nuovo sull’isola mia adorata. A scrivere sulla terrazza, circonfusa di spruzzi, con il vulcano che mi brontola dietro e il mare che fa rotolare i sassi nella risacca. È stata dura, quest’anno, ma non ho mai smesso di lavorare. Il mio lavoro, anzi, obbligata com’ero ad una quota di solitudine superiore a quella che mi è consueta, ha tratto un certo beneficio dalla pandemia. Non possono dire la stessa cosa tutti quelli, e in Italia sono tanti, che vivono delle vacanze degli altri. Chi ha un ristorante a Portofino, una baita incastrata fra le montagne, chi gestisce un bed & breakfast a Venezia o una spiaggia in Sardegna o sulla Riviera romagnola ha tremato fino all’ultimo: potranno di nuovo muoversi gli stranieri? L’Italia con il suo record di caduti da Covid-19 smetterà di far paura? L’ipotesi di soffocanti quarantene ammazza-ferie scomparirà? Si potrà di nuovo saltare su un aereo o montare su un treno con leggerezza? L’angoscia, nemica del turismo, si sta diradando, il sole, con i suoi raggi igienizzanti, sta cauterizzando le ferite del lungo inverno. Ma le perdite nel settore sono difficili da rimarginare.
Sono saltate Pasqua e Pasquetta, il ponte di aprile-maggio, le vacanze sulla neve del Natale scorso… Gli italiani si lamentano: pare che senza il premio estivo non riescano a vivere. In un altrove non lontano, sotto il sole, volano le bombe. Siamo un popolo di fatui gaudenti e spendaccioni? Forse sì, ma viviamo in uno dei Paesi più belli del mondo. Questa bellezza dobbiamo farla lavorare per noi, per riassestare un’economia gravemente dissestata. Perciò, tutti in vacanza!
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