Eliana Ribes.
Laureata in Lettere Moderne, ha lavorato nelle scuole in qualità di assistente amministrativa e ora è in pensione. La letteratura è sempre stata la sua passione e ha iniziato a scrivere racconti brevi per diletto. Nel 2016 ha scritto il libro “Per quanti fjuri caccia ‘m prate”, in dialetto maceratese, e nel 2019 “Il filo dei ricordi”, che raccoglie quattro generazioni della sua famiglia; ambedue sono stati pubblicati a scopo benefico. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Macerata.
Mio marito dice, con un po’ di invidia, che la persona a cui ho voluto più bene al mondo sia mia madre. Io non lo credo, lo nego pure a me stessa, ma adesso che è morta no faccio che interrogarmi sul rapporto che mi ha legato a lei.
Mamma ha dovuto lasciare la sua casa e la vita nel modo più impensato, mai l’avremmo neppure sognato. Ad aprile di quest’anno ha contratto il covid in forma lieve e non subito avvertita, e quando tutto sembrava risolto improvvisamente ha avuto delle complicazioni che non potevano essere curate a casa. In una notte fredda e piovosa è partita con il 118, da sola e con il fardello dei suoi novantanove anni, consapevole di tutto. Il gelo e lo sgomento sono calati nel cuore di noi figli quando abbiamo saputo che era necessario un intervento chirurgico, perché aveva una perforazione intestinale che le sarebbe stata fatale da lì a poche ore. C’è da dire che l’ospedale si è attivato con grande sollecitudine e cura, nonostante l’età: mamma è stata operata ed è rimasta in chirurgia per undici giorni. Siamo sempre stati con il cuore vicino a lei, a chiederci di continuo quanto fosse consapevole e soffrisse, senza mai poterla vedere, perché fino alla fine è risultata positiva al covid. La sua forte fibra ha resistito, ma alla fine ha dovuto cedere, e in un’altra tristissima notte è arrivata la notizia della sua morte.
Cara mamma, chi poteva mai prevedere che sarebbe finita così? Il modo in cui sei “sparita” non va bene, non mi hai dato per niente il tempo per prepararmi! Ti ho lasciata che finivi la cena con un mandarino e dopo pochi giorni ho dovuto convincermi che dentro quella bara chiusa c’eri tu. La sensazione di vuoto è grande e si ha pudore a manifestarla, perché avevi novantanove anni e sono pochissime le persone che ci arrivano; ma proprio per questo mi sembravi immortale e adesso
debbo frenare l’impulso di venirti a trovare e convincermi che non ci sei più ad aspettarmi.
Anche se molto anziana, fino a due mesi fa la vita di mamma continuava a scorrere con le abitudini di sempre, vigilata da mio fratello con cui divideva la casa nel paese natale di Urbisaglia, in locali divisi anche se comunicanti. L’unica novità è che di comune accordo noi tre figli (io e mia sorella abitiamo a Macerata, a quindici chilometri di distanza da loro) da tre anni avevamo ritenuto necessario metterle una persona che le fornisse un aiuto domestico al mattino e le facesse un po’ di compagnia al pomeriggio, anzi due persone distinte, per un massimo di cinque ore al giorno. E in questo contesto sono affiorate le caratteristiche della vecchiaia, quando si deve sottostare a modi di fare altrui che mettono in discussione mentalità e abitudini inveterate. Così più e più volte si è lamentata perché le cose sparivano (cose di poco conto, come gli strofinacci della cucina o i calzini), o venivano spostate in luoghi troppo alti dove lei non poteva arrivare (tipo i barattoli di caffè) – e questo a lei sembrava un dispetto – o perché venivano lavati di continuo panni già puliti -secondo lei – solo per aggiustare il carico della lavatrice.
Inoltre era dell’idea che fidarsi era bene e non fidarsi era meglio, così era diventato quasi impossibile portarle cioccolatini e dolciumi non deperibili, perché non pensava al gusto di assaggiarli ma al posto più sicuro dove nasconderli, rischiando di dimenticarlo. Per questo la cosa più gratificante era portarle un pasticcino fresco o una fetta di torta da consumare subito, insieme ad una tazza di tè: si evitavano tante complicazioni e le si restituivano la libertà e il piacere.
Anche la sua tirchieria si era accentuata. Con mio fratello che le faceva la spesa aveva sempre da ridire sulla qualità e sul prezzo delle cose che le comprava; con me discuteva sull’acquisto di capi di abbigliamento che le sarebbe piaciuto rinnovare, ma per cui non voleva spendere. Così finiva per
indossare sempre le solite maglie, pulite e profumate, e per farle aderire meglio al corpo e non sentire freddo si stringeva sotto al seno una cinta, imitando lo stile “impero”. Tra sopra e sotto arrivava a portarne fino a sei!
Siccome di tempo per pensare ne aveva tanto, erano riaffiorati ricordi che la portavano a rammaricarsi o interrogarsi per cose che non aveva fatto o aveva fatto male, rafforzando quella sensazione di inadeguatezza che l’aveva accompagnata nella vita. Ad esempio non aveva capito che al figlio che consegue una laurea è opportuno fare un regalo, anche se è già sposato; non ricordava se il numero di lenzuola del mio “corredo” fosse stato adeguato; pensava che la biancheria intima che aveva dato in dote a mio fratello fosse stata insufficiente e voleva rimediare adesso, dandogli dei soldi per fargliela comprare. Ci faceva fare tante risate!
Viveva in una casa modesta, immutabile con il passare degli anni, ma a lei sembrava di possedere “tutto l’oro del mondo”. Quando cercavi una cosa immediatamente ti diceva dove trovarla: la funzione direttiva spettava a lei! Tanti oggetti che conservava con la massima cura ora purtroppo dovranno lasciare la sua casa, e questa per me è un’esperienza dolorosa, perché mi sembra di contribuire a cancellarla da questa vita. Anche il solo frugare nei suoi cassetti mi dà una sensazione di indelicatezza, e ho pudore a farlo.
Mamma era legata alla vita e alla sua casa, era una dona tenace e orgogliosa, non parlava mai di morire in maniera seria, ma solo scherzosa, si accontentava di poco, era grata di quello che ognuno di noi figli poteva darle. Nei miei confronti non usava mai un tono di rimprovero o di rivendicazione, aspettava le visite con pazienza e queste erano l’occasione per farla sfogare sulle “badanti” e per ridere su aspetti della quotidianità che venivano riesaminati in chiave ironica. Aveva nel volto la vivacità di Jessica Tandy, nel film A spasso con Daisy, quando la protagonista sosteneva con il figlio che i barattoli di salmone nella dispensa dovevano essere nove e non otto, e che uno
glielo aveva trafugato il suo autista Hoke. Per la fantasia di mamma, invece, erano i vasetti di yogurt dentro al frigorifero che diminuivano.
Una cosa che le faceva indurire il volto era quando ci incontravamo tra sorelle e incominciavamo a parlare tra di noi. Era sorda, alla fine sempre più sorda, e non potendo seguire i nostri discorsi si sentiva esclusa e si rabbuiava. Cercavamo di riassumerle “più da vicino” il contenuto, ma diceva che facevamo confusione e non era contenta lo stesso. L’unica soluzione era quella di andare una volta una, una volta l’altra: allora avvertiva l’esclusività che desiderava ed era contenta.
Mamma ha attraversato un secolo di storia e non un secolo qualsiasi, ma di profondissimi mutamenti politici, economici e sociali. Ha frequentato le scuole elementari in un periodo in cui si era valutati anche per la Storia e cultura fascista, Lavori domestici e manuali e Igiene e cura della persona. I suoi genitori erano persone serie e vigilavano attentamente sulle quattro figlie affinché non deviassero dalla “retta via”. Il padre, di idee progressiste, nutriva la convinzione che le figlie non dovessero sistemarsi sposando un buon partito, ma poco più che adolescenti aveva provveduto affinché imparassero un mestiere. A mamma, dopo un periodo di apprendistato, aveva comprato due macchine per maglieria, una che lavorava la lana grossa, l’altra che lavorava la lana fina, unite da
un cavalletto. E così il lavoro e mamma sono diventati un’unica cosa. Si era sposata nel 1945 e non aveva dovuto fare tanta strada, l’aveva semplicemente attraversata, perché la casa del marito si trovava davanti la sua, e il marito era il ragazzo che da sempre frequentava la sua casa, perché imparava il mestiere di falegname nella bottega del padre. Però per sposarsi di strada aveva dovuto farne tanta, considerato che si era nel primo dopoguerra e per trovare un paio di scarpe adatte per la cerimonia aveva dovuto recarsi a piedi a Tolentino, che dista quindici chilometri da Urbisaglia, per ben tre volte, andata e ritorno. La vita matrimoniale da subito l’ha presa di petto e ha fatto di tutto e di più, anche perché doveva convivere con la suocera e una zia. La nostra casa era frequentata dalle sue clienti, provenienti soprattutto dalla campagna circostante – perché mamma lavorava anche la lana di pecora – che mi rallegravano e facevano compagnia, e si respirava un’aria di amicizia e di solidarietà. Però la sensazione che mi è rimasta è che le sue macchine me l’abbiano sottratta fisicamente. Sottratta dall’accompagnarmi a scuola, a fare una passeggiata, perfino dall’addormentarmi la sera. A casa mia era consuetudine che babbo andasse a letto la sera presto e mamma molto tardi, quando si era liberata dalle altre incombenze e poteva lavorare alla macchina delle maglie senza interruzione; così quando cascavo dal sonno mi abbracciava e mi metteva a dormire vicino a babbo. In un secondo momento mi riprendeva e mi portava nel mio letto, cosa che io non gradivo perché d’inverno lo trovavo freddo, ed allora per non andarci tentavo di aggrapparmi all’armadio.
Quando si sedeva per cucire le maglie, le sottovesti, i calzini e altro di quello che produceva, provavo una grande contentezza e le chiedevo di raccontarmi prima le favole e poi, crescendo, episodi della sua vita e di cronaca. A pensarci ora un vestitino per la mia bambola di gomma, che andava sempre nuda, non gliel’ho chiesto mai, anche se lo desideravo tanto. Però la sua esistenza è stata questa, infaticabile, e tanti vantaggi ne ho ricevuti. La maniera più esplicita di esprimere affetto sicuramente è stata quella di prepararci e offrirci del cibo, in tante occasioni, e in questo è stata insuperabile. Quante sfoglie ha steso per tagliatelle sottilissime, pasta al forno o ravioli! Quanti polli, papere, oche e piccioni allevati nel cortile dietro casa ha spennato e fatto arrosto! Da farle un monumento!
Riposa in pace mamma, in quel camposanto che dista duecento metri da casa tua e che era il tuo luogo privilegiato, quello in cui incontravi le persone e scambiavi due chiacchiere. Non sgridarci se non sempre ci saranno i fiori freschi, tu che eri un’attenta osservatrice e biasimavi quei figli che non si occupavano assiduamente delle tombe dei genitori e mettevano quelli finti. La cura delle tombe era per te una cosa molto seria, e noi sicuramente non ne saremo all’altezza.
Io per farti continuare a vivere farò quel che posso, parlerò e scriverò di te con figli, nipoti e tutti quelli che ti hanno conosciuta, perché questo ti è sempre piaciuto. Non ti farò sconti, come in questa occasione, perché sei una persona troppo intelligente. Quando in passato leggevi i racconti che ti riguardavano ti brillavano gli occhi e esprimevi sempre grande soddisfazione, ed io quella luce non la dimenticherò mai, perché è l’espressione più bella che ti ho vista in viso e che mi accompagnerà per sempre.