I piccoli comuni, lontani dalle metropoli, immersi nella storia e nella natura, costituiscono un patrimonio per il nostro Paese. La salvaguardia e la riqualifica di questi territori potrebbe offrire nuove opportunità per l’Italia del futuro.
L’emergenza Covid ha riportato l’attenzione sui borghi e sulle opportunità di una vita dai ritmi più sostenibili, lontano dai grandi centri urbani e a contatto con la natura. Nel dibattito pubblico più recente non sono mancati anche gli appelli al ripopolamento e alla valorizzazione dei piccoli comuni da parte di architetti di fama internazionale come Massimiliano Fuksas, che lo scorso anno aveva dichiarato: «La provincia ha una capacità superiore rispetto alla città di fronteggiare le difficoltà economiche, e si può pensare di andare a rioccupare aree straordinarie dove magari vivremmo meglio». Dello stesso avviso anche Stefano Boeri, che descriveva come «una straordinaria opportunità la vita nei piccoli centri e nelle aree interne, considerando che oltre 5mila borghi storici sono in via di abbandono e 2.300 sono quelli già abbandonati».
L’Italia, in effetti, è un territorio dove una larga fetta della popolazione – oltre dieci milioni di persone – nonostante il fenomeno di spopolamento avvenuto negli ultimi decenni, vive in realtà con meno di cinquemila abitanti. I piccoli comuni rappresentano quasi due terzi del totale (69,7%) e corrispondono al 54,1% della superficie territoriale complessiva del Paese. Nella grande maggioranza dei casi si tratta di realtà rurali a bassa urbanizzazione, e per più della metà dei casi, di aree totalmente montane.
Secondo i dati del Rapporto Symbola-Coldiretti stilato nel 2018, è il Nord-Ovest a concentrare la quota più rilevante di queste piccole realtà, nelle quali sorge anche il 17,2% delle imprese.
Fra questi comuni ce ne sono 307 che, dal 2001 al 2019, hanno ottenuto il riconoscimento di “Borgo più bello d’Italia”, un progetto voluto dall’Anci (Associazione Nazionale Comuni Italiani) per salvaguardare e rivitalizzare i borghi che per le loro tendenze demografiche rischierebbero un completo abbandono. In totale contano poco più di un milione e trecentomila abitanti, con una perdita di popolazione sistemica di 289mila persone dal 1951, delle quali 185mila unità solo nel periodo 2001/2019.
Lo stanziamento di 600 milioni di euro per interventi di restauro e riqualificazione dell’edilizia rurale e storica potrebbe rappresentare un sostegno concreto per coloro che, non vivendo in queste realtà, abbiano cominciato a pensare a un cambio di vita più soddisfacente, complici anche lo smart working e una maggiore flessibilità lavorativa che per tanti, innegabilmente, la pandemia ha generato. Secondo Coldiretti, il rilancio dei borghi potrebbe essere l’inizio di una riprogrammazione dell’Italia post Covid, con l’opportunità di salvare un immenso patrimonio rurale fatto di malghe, cascine, fattorie e masserie disseminate in tutto il territorio, oltre all’occasione per alleggerire la pressione demografica sui grandi centri urbani, senza ulteriore consumo di suolo.
Anche Legambiente, che dal 2004 promuove l’iniziativa “Voler Bene all’Italia” per raccontare le potenzialità dei piccoli comuni, nell’edizione 2021 – che si è svolta dal 28 maggio al 5 giugno – ha voluto rilanciare un appello al Governo rispetto all’utilizzo che sarà fatto del Recovery Plan, attraverso iniziative in dieci piazze di altrettanti comuni, da Nord a Sud.
Perché al fascino dei borghi e agli innegabili vantaggi di una vita a misura d’uomo, bisogna anche aggiungere una realistica riflessione su quali siano le criticità di un cambio radicale, se non si colmano alcuni ritardi di cui evidentemente il nostro Paese, soprattutto nelle aree interne, soffre: solo il 76% delle famiglie dispone di un accesso a internet nelle zone montane, e la percentuale scende al 68% se si considerano i comuni con meno di duemila abitanti (dati Istat 2019).
Eppure l’Italia è già dotata da quasi quattro anni di uno strumento per la valorizzazione dei piccoli comuni, la Legge 158/2017, proposta e poi approvata quando ancora la pandemia era lontana e non tutti riuscivano a immaginare percorsi di valorizzazione del territorio che partissero proprio dai borghi. La Legge individua diverse tipologie di comuni che possono beneficiare di finanziamenti: quelli collocati nelle aree soggette a fenomeni di dissesto idrogeologico o interessati da marcata arretratezza economica, in cui si è verificato un significativo decremento della popolazione, e che siano caratterizzati da condizioni di disagio insediativo, sulla base di parametri come la percentuale di occupati rispetto alla popolazione residente, l’inadeguatezza dei servizi sociali essenziali, le difficoltà di comunicazione e la lontananza dai grandi centri urbani.
Ermete Realacci, oggi presidente della Fondazione Symbola, è stato il promotore di questo documento da presidente della Commissione Ambiente alla Camera, e riuscì a ottenerne l’approvazione dopo diversi tentativi in precedenti legislature.
«La Legge provava a fare quello che oggi sembra scontato ma che è un tema ancora in piedi, e cioè che la questione dei piccoli comuni non deve essere vista come un punto di sofferenza e declino, ma di scommessa per il Paese – ha dichiarato Realacci a 50&Più -. L’idea era di difendere questi luoghi come serbatoi di identità, valorizzandoli come occasione di nuova economia, grazie anche alle nuove tecnologie. Non dobbiamo dimenticare che più della metà del territorio italiano è amministrato da piccoli comuni che, messi insieme, sono luoghi in cui vivono oltre dieci milioni di persone».
Quali sono le criticità dei piccoli borghi?
Per fermare lo spopolamento non serve distribuire risorse “a pioggia”, ma garantire servizi essenziali dove spesso mancano o sono stati eliminati: scuole, presidi sanitari, uffici postali, parrocchie, piccoli esercizi commerciali, caserme dei Carabinieri. Perché dobbiamo pensare che se chiudere uno di questi servizi in una città ha un impatto, immaginiamoci quale possa essere in una piccola realtà. Oggi il tema è diventato di attualità ed evidenziato dalle scelte dell’Europa. L’altro elemento è quello della connessione della rete, perché oggi per essere competitivi nel mondo, più di una ciminiera che fuma, serve la banda larga. Ci sono esempi di attività collocate in comuni apparentemente marginali ma che esportano in tutto il mondo, quindi dove si lavora per implementare le tecnologie, è possibile fare impresa anche da luoghi apparentemente periferici. E poi c’è l’agricoltura di qualità, quella che si sta riscoprendo e che oggi attira anche giovani laureati che scommettono sul territorio. Non dobbiamo dimenticare che oltre il 90% delle produzioni Doc e Igp ha a che fare con i piccoli comuni. Però il punto fondamentale è che se non c’è una scuola di prossimità, le giovani coppie non si trasferiranno mai in un borgo, e dunque anche i circuiti dell’economia virtuosa non hanno modo di crescere.
Cosa è cambiato dopo la Legge 158?
Uno dei risultati della Legge, che rimane ancora largamente inapplicata, è stato bloccare la chiusura degli uffici postali nei piccoli comuni: Poste Italiane ha capito che il mondo stava cambiando e se è vero che si spediscono meno lettere, al contrario si spediscono più pacchi, e c’erano una serie di servizi, previsti nella legge, che le Poste potevano fornire alla comunità. Adesso cominciano a esserci le giuste risorse economiche, anche se non l’ho mai considerato un aspetto prioritario, perché se non c’è una progettualità, le risorse da sole non fanno la differenza, e in alcuni casi sono state usate male. Un input importante ci arriva però dall’Europa, che stabilisce le risorse in base a tre priorità: coesione e inclusione, compreso l’aspetto sanitario, transizione verde e digitale. Queste condizioni si sposano con le necessità dei piccoli comuni, possono rafforzarli e lì trovare un terreno di applicazione. Pensiamo alla sanità territoriale, alla telemedicina, che diventerebbero abilitanti per questi centri.
C’è il rischio che questo innamoramento dei borghi sia una moda di passaggio, magari dovuta proprio alle restrizioni vissute durante la pandemia?
Il rischio c’è, se non si progetta per fare in modo che il cambiamento sia duraturo. Fortunatamente stiamo osservando che in settori come l’agricoltura, che pure restano contraddittori se pensiamo che alcune fette di produzione sono ancora gestite tramite il caporalato, c’è una progettualità nuova che guarda alla qualità, alla sostenibilità, a nuovi stili di vita. Le sfide tecnologiche vanno accettate, ma senza perdere la capacità di fare le cose “a mano”, nel senso che dobbiamo mantenere la guida delle macchine e non esserne guidati.
È possibile una sinergia fra piccoli borghi e grandi città?
Certamente, anzi è auspicabile, perché se vuoi salvare Firenze, Venezia, Roma, devi salvare anche il resto. La condizione per aprirsi al mondo è l’apertura, invece si tende a costruire muri quando l’identità è debole. Scommettere sui piccoli borghi è anche questo: ripartire dalle cose migliori dell’Italia in una nuova dimensione.
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