Da qualche tempo è ormai chiaro come l’aspettativa di vita si sia drasticamente allungata. Una condizione che detta il bisogno di strutture sanitarie con standard elevati, in grado di ospitare persone anziane con particolari necessità di cura. Questo punto sta decretando sempre più lo sviluppo e la richiesta di alloggi nelle Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA).
Da oggi sino al 2035 si stima che gli investimenti destinati al settore, nel nostro Paese, varieranno fra i 15 e i 23 miliardi di euro. Si tratterà sempre più di risorse provenienti dal privato, visto che il settore pubblico risulta ormai essere sempre più in affanno.
Una cifra ragguardevole, eppure la situazione complessiva in Europa ci vede in netto svantaggio rispetto a Spagna, Francia e Germania. Nel Paese Iberico esistono 5.400 strutture per 373.000 posti, in Francia 10.500 per 720.000 e in Germania 12.000 strutture per 876.000 posti. Da noi ci sono poco più di 4.000 RSA per un totale di 280.000 posti letto. È un dato che ci colloca in quartultima posizione nell’Ocse, l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, ben al di sotto quindi della media europea. Non solo: è un dato in controtendenza rispetto all’evoluzione demografica del nostro Paese che, nel 2050, presenterà 21,8 milioni di over 65 e un 10% della popolazione costituito da over 80.
Lo Stato o le Regioni italiane detengono oggi il 45% delle RSA esistenti, a fronte di un 35% che è in mano al comparto no-profit e di un 20% gestito dai privati. Vista la scarsità di risorse pubbliche, gli investimenti maggiori, attirati dagli ottimi rendimenti, provengono dal privato sia attraverso fondi di investimento sia attraverso grandi gruppi italiani, francesi e tedeschi. I marchi più noti sono Kos, Gheron, Edos in Italia; Korian, Orpea e La Villa hanno invece capitali francesi.
Del resto, nell’ambito delle RSA, “piccolo” non è bello, nel senso che le strutture al di sotto dei 120 posti letto sono considerate ingestibili in modo redditizio ed efficiente da tutti gli studi di settore. Tuttavia, quando i capitali da investire sono di notevoli dimensioni possono verificarsi irregolarità e casi di cronaca giudiziaria, proprio come negli ultimi mesi.
Eppure, anche quando le società si comportano in modo corretto, sia le strutture che le gestioni finiscono per rimanere avulse dal territorio, non interpretando fino in fondo i bisogni reali e, in caso di difficoltà, non esitando ad abbandonare le realtà che non “rendono” secondo certi parametri. A questo si aggiunga un altro vincolo proveniente dalla legislazione: in alcune Regioni italiane, come ad esempio la Toscana, non si offre alcun incentivo per far crescere e favorire le aggregazioni di enti no-profit di piccole e medie dimensioni, i quali essendo espressione del territorio, riescono a rispondere meglio alle esigenze locali.
Manca inoltre un’altra cosa, molto importante: la concreta volontà di incentivare pratiche di co-programmazione e co-progettazione che, pur essendo formalmente previste, finiscono per essere declinate con un’impostazione dirigista che prevede l’iniziativa solo e sempre ad opera di Enti pubblici, trascurando la possibilità di avviare progetti dal basso.
Ma non tutto è perduto: in questo senso, qualche novità potrebbe venire dalla riforma del Terzo Settore, sempre se attuata secondo logiche che non consentano di bypassare gli affidamenti con gare d’appalto che spesso premiano solo la minore spesa a scapito della qualità dei servizi.
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