A quattro anni dall’introduzione di questa misura di contrasto all’indigenza, proviamo a fare un bilancio, tra domande respinte, illeciti e nuove possibili prospettive
Mai, forse, si era vista nel recente passato una misura di natura previdenziale o assistenziale così controversa e divisiva come il Reddito di cittadinanza, che ha polarizzato le posizioni delle varie forze politiche; alcune (soprattutto, ovviamente, il Movimento 5 Stelle, padre ed ispiratore del Rdc) ne continuano a fare una “misura bandiera” ed hanno fondato su di essa gran parte della propria recente campagna elettorale; altre, invece (le forze dell’attuale maggioranza), hanno una posizione critica e ne chiedono il superamento o, comunque, una profonda revisione, sostenendo l’opportunità di dirottare su altri obiettivi – “Quota 41”, ad esempio – parte delle risorse (circa 8 miliardi all’anno) oggi destinate al suo finanziamento.
A poco più di quattro anni da quell’avventato e improvvido annuncio: «Abbiamo abolito la povertà» (e con in mezzo una pandemia epocale, una guerra nel cuore dell’Europa, una crisi energetica di vaste proporzioni), quale bilancio possiamo tracciare del Reddito di cittadinanza?
I detrattori di questa misura puntano il dito in primis sulle truffe – tentate o andate a segno – legate alla percezione del sussidio, che non di rado hanno conquistato l’onore delle cronache.
Di recente, l’INPS ha fornito i dati dell’attività di vigilanza che ha operato da aprile 2019 ad oggi per il contrasto di condotte fraudolente e per evitare erogazioni indebite a chi non possedesse i requisiti richiesti: circa 1,7 milioni di domande respinte a soggetti non aventi diritto, 871mila percettori decaduti dal beneficio per perdita dei requisiti e circa 214mila benefici revocati.
Eppure, nonostante le verifiche “ex ante” operate sulle autodichiarazioni rese dai richiedenti, l’Istituto viene additato da molti come il principale responsabile di quella mancata verifica dei requisiti di cittadinanza, anagrafici e di residenza che è alla base degli illeciti emersi, che hanno portato alla luce complessivi 171 milioni di euro indebitamente percepiti.
Cifre sicuramente importanti (ahimè, i “furbetti” nel nostro Paese non mancano mai), ma che sono forse fisiologiche per una misura che ha coinvolto nel periodo quasi 1,8 milioni di nuclei familiari, per complessivi circa 3,4 milioni di percettori.
Attenzione, però, a parlare in maniera indiscriminata di truffe; è pericoloso e fuorviante generalizzare, soprattutto quando si ha a che fare con situazioni di povertà diffusa, associata in molti casi ad un basso grado di scolarizzazione. Non bisogna commettere l’errore di etichettare come furbizia quello che in molti casi è dovuto semplicemente ad ignoranza (e in alcuni casi, va detto, anche a leggerezza e superficialità di chi ha raccolto le domande) va scambiata per furbizia.
Un’altra critica che viene mossa al “reddito” consiste nel suo effetto disincentivante sull’occupazione. Circolano testimonianze di imprenditori che, davanti ad un’offerta di lavoro si sarebbero sentiti opporre un rifiuto da parte di potenziali lavoratori che avrebbero preferito (il condizionale è d’obbligo) continuare a percepire il Rdc standosene comodamente sul divano (o, in alcuni casi, continuando a lavorare in nero), piuttosto che rinunciare al beneficio entrando ufficialmente nel mercato del lavoro.
Difficile dire se si tratti di reali effetti dell’introduzione del Rdc o solo di leggende metropolitane. È probabile, però, che la percezione sia in qualche modo falsata anche da uno scetticismo verso lo strumento del Reddito, alimentato dall’effettiva difficoltà da parte delle imprese di alcuni settori di reperire la manodopera di cui necessitano e dal pregiudizio di chi – constatando come la maggior parte dei percettori risieda in aree del Centro-Sud alle quali si tende ad associare il luogo comune di una scarsa propensione al lavoro – associa automaticamente la percezione del Rdc ad una scarsa voglia di lavorare e ad un assistenzialismo inteso nel senso più deteriore del termine; o, ancora, dall’idea diffusa di un connubio stretto tra percezione del sussidio e lavoro in nero, che disincentiverebbe la ricerca di una occupazione stabile e in chiaro.
Tuttavia, la maggiore critica che si può avanzare al Reddito è, effettivamente, il suo totale fallimento quale misura di incentivo all’occupazione, a dispetto delle dichiarazioni di intenti dei suoi promotori.
Secondo i dati forniti dall’ANPAL, a giugno 2022, solo 660mila beneficiari del Reddito sarebbero tenuti a sottoscrivere il Patto per il lavoro e appena 115mila sono decaduti dal beneficio perché hanno trovato un lavoro mentre erano percettori del sussidio, ma non si sa se questa occupazione sia stata trovata grazie alle politiche attive del lavoro (ed ai famosi “Navigator”) o per altre vie.
L’errore, ad essere obiettivi, era sotto gli occhi di tutti fin dall’inizio: non solo quello di legare un sistema di welfare alle politiche attive del lavoro (senza tenere conto, tra l’altro, che due terzi dei percettori sono inabili o comunque non collocabili), ma anche l’idea di affidare queste politiche ai Centri per l’Impiego, una rete di strutture scarsamente funzionanti che – a dispetto del nome – storicamente faticano ad incrociare domanda ed offerta di lavoro e a fornire reali opportunità di impiego. Né l’introduzione dei famosi “Navigator” (altra figura nel mirino dei detrattori di questo sussidio) ha cambiato le sorti di una partita dall’esito scontato.
In definitiva, quindi, il Reddito è da buttare? Assolutamente no! Anzi, costituisce e dovrà continuare ad essere uno strumento importante di lotta e contrasto alla povertà, come ce ne sono di simili in molti altri Paesi. Del resto, secondo l’ISTAT, sono oltre 5 milioni le persone (1 milione e 778mila famiglie) che vivono in povertà assoluta in Italia, un quadro destinato probabilmente ad aggravarsi a causa della crisi energetica e di un’inflazione a due cifre, che comporteranno presumibilmente una crescita del numero di quanti vivono nell’indigenza.
Ma chiamiamolo per quello che è: un sussidio di contrasto all’indigenza, senza continuare a volerne fare uno strumento di volano dell’occupazione, obiettivo che continuerebbe presumibilmente ad essere destinato al fallimento, fornendo nuove frecce all’arco di chi, invece, vorrebbe eliminarlo del tutto per dirottare quelle risorse verso obiettivi e politiche più confacenti alla propria visione della società.
Del resto, neanche la maggioranza uscita dalle urne ritiene ormai percorribile un superamento tout court del sussidio e pensa invece ad una sua riforma, con ipotesi che vanno dal mantenimento del sussidio per i soli soggetti fragili (con la conseguente esclusione dei beneficiari in grado di lavorare) fino ad un decalage (sia in termini di durata che di importo) del beneficio.
Probabilmente, quindi, il 2023 vedrà un restyling complessivo del Reddito per l’intera platea degli attuali beneficiari: l’ipotesi più accreditata al momento è quella di un meccanismo di “sospensioni” e successivi rinnovi per periodi sempre più brevi e con un importo a scalare, con un sistema di decalage che possa costituire un disincentivo a rimanere a lungo nel sussidio e un incentivo, invece, a ricercare un’occupazione. È probabile anche che venga prevista la decadenza dal beneficio dopo il rifiuto di una sola offerta di lavoro congrua (oggi la decadenza avviene dopo due rifiuti).
Le stime del Governo prevedono che queste modifiche avranno effetto su un terzo degli attuali percettori – ossia quei 660mila già oggi tenuti alla sottoscrizione del Patto per il lavoro e quei 173mila occupati ma con un reddito da lavoro così basso da non farli decadere dal beneficio – e che, a regime, produrranno un risparmio di circa 3 miliardi, dirottabili su altri obiettivi.
Le soluzioni dovranno anche tenere conto di un’altra variabile: la platea “occupabile” dei percettori del Reddito appare poco appetibile per le aziende, perché costituita da persone che risiedono in larga parte (75%) al Sud o nelle Isole, aree in cui minori sono le opportunità lavorative; che in gran parte (73%) non hanno mai avuto un contratto di lavoro nei tre anni precedenti; che hanno per lo più una bassa scolarizzazione (il 70,8% ha al massimo la licenza media) e hanno quasi per la metà (48%) più di 40 anni. Profili, insomma, che in molti casi rendono difficoltoso non solo l’inserimento lavorativo, ma anche l’avvio di un percorso formativo mirato.
Tra le varie proposte di riforma, si parla anche di un sistema di controlli non più affidato all’INPS, con un maggior coinvolgimento degli enti locali (in particolare i Comuni) che meglio sono in grado di conoscere le reali situazioni locali di povertà, di vera necessità e disagio. Tutto giusto, in teoria. Purché si abbia la consapevolezza che questo sistema – senza più l’asettica potenza informatica dell’INPS e le sue potenzialità di sinergia con le altre PP.AA. detentrici delle informazioni da incrociare e verificare – potrà essere soggetto a varie “pressioni” locali e a zone grigie in cui potrebbero annidarsi interessi clientelari o comportamenti fraudolenti – o anche solo negligenti – che tornerebbero a gettare cattiva luce su una misura essenziale per molte famiglie realmente indigenti.
Tra le varie proposte di riforma, si parla anche di un sistema di controlli non più affidato all’INPS, con un maggior coinvolgimento degli enti locali (in particolare i Comuni) che sono in grado di conoscere le reali situazioni locali di povertà, necessità e disagio.
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