Luciano Rech. Da sempre con la passione di scrivere, ha pubblicato come collaboratore volontario sul periodico parrocchiale “Il Ponte” alcuni suoi racconti. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Delebio (So).
Fa un freddo pungente stamattina, ma forse sono l’umidità e questa nebbia così rara in bassa valle che lo rendono insopportabile.
Li ricordo bene il freddo e l’umidità.
Li ho conosciuti nella pianura veneta durante la Grande Guerra.
Brutta cosa la Grande Guerra. Non avrei mai creduto di poter vivere qualcosa di più tragico.
Però allora non mi trascinavo in pigiama e ciabatte sul viale alberato che conduce al cimitero. Mi faccio pena così conciato.
Ma ormai non importa. Fra poco i tre ragazzi alle mie spalle completeranno orgogliosi la loro impresa. Lo faranno certamente, convinti come sono di essere nel giusto.
Ormai mi è chiaro: non ci arrivo alle sette di oggi domenica undici marzo 1945, mi fucileranno prima.
Ho provato a recitare mentalmente il Padre Nostro. E’ l’invocazione più bella perché ce l’ha dettata direttamente Nostro Signore.
Ci ho provato, ma non riesco nemmeno a evocare il viso della mia adorata moglie come vorrei, figurarsi a ricordare le parole di una preghiera che non recito da anni! D’altra parte non ho mai goduto del conforto della Fede, quella vera e incondizionata che in fondo ho invidiato a tanti altri, più fortunati di me, che ce l’hanno quella Fede.
Che strane le cose che vengono in mente in questi ultimi momenti, somigliano alle visioni che si susseguono incontrollabili quando, pur esausti, si vuol resistere al sonno.
Alzo lo sguardo verso le alpi retiche che ho davanti e che con questa bruma riesco a mala pena a distinguere. Immagino il profilo delle prealpi alle mie spalle, così familiare ma che non posso guardare proprio, perché i tre, sfiorandomi più volte le guance con la canna del fucile, mi hanno diffidato dal voltarmi.
Eppure ho in mente tutto di queste ultime ore.
Sento ancora il secco rimbalzare dei ciottoli sulle imposte che mi desta nel pieno della notte e il cigolio della finestra che apro.
Ricordo la titubanza con la quale mi affaccio e ascolto le implorazioni quasi sussurrate dai ragazzi in strada: “Sciür Nerairi, Sciür Nerairi, l’se stremisi miga! Sciür Carlo, che l’dervisi! el’ne faghi vegni dent in caa! per piasee! Se i ne trova i ne cupa! In caa vosa i vee miga dent de sicür! Per piesee Sciür Nerairi!” (*)
Rivivo la corsa giù per le scale mentre, inseguito da mia moglie che m’implora: “Cosa fai, non rischiare, guarda che sono solo malintenzionati, magari sono i fascisti!”, penso che loro mi hanno chiesto aiuto nel dialetto del paese, nel mio dialetto. Quelli potrebbero essere i miei figli e non importa che siano renitenti alla leva perseguitati dalla milizia o “fascisti” isolati che fuggono la rabbia dei partigiani.
Non posso abbandonarli.
E poi, cosa può temere da loro un uomo come me, avanti con gli anni e del tutto estraneo a questa guerra che non è più guerra ma feroce lotta fratricida?
E invece ecco la sorpresa, più forte ancora dello spavento.
Ricordo bene come appena socchiuso il portone, quelli l’hanno spalancato a calci, con i fazzoletti sul viso e i fucili spianati, comparsi nelle loro mani come dal nulla.
Solo il più deciso di loro ha parlato, non so se fosse il capo oppure l’unico del gruppo capace di evitare termini e cadenze dialettali.
Gli altri che lo fiancheggiavano, tenevano gli occhi bassi, credo per quel misto di ritrosia e di disagio che gli adolescenti, perché in fondo quelli tali sono, provano nell’incontrare lo sguardo di un uomo che ha l’età dei loro padri.
L’oratore mi ha accusato di aver aderito al Partito Nazionale Fascista.
Con un gesto perentorio del mitra mi ha fatto intendere che non accettava repliche.
Ma in fondo cosa avrei potuto dire?
Nonostante il fastidio per l’atteggiamento più “militaresco” che marziale ostentato dal regime, ho simpatizzato anch’io per il fascismo, come la stragrande maggioranza degli Italiani e, almeno così si dice, non poche illustri personalità straniere.
Poi i tre hanno rinchiuso mia moglie in camera, si sono fatti consegnare il poco denaro, i preziosi e le gioie che custodivamo in casa.
Finita la razzia mi hanno costretto ad accompagnarli alla filiale dell’istituto di credito dove lavoro.
Più per avvilirmi che per la fretta, non hanno lasciato che mi ricoprissi, neanche con il solo mantello.
Raggiunta la banca l’hanno svuotata di tutto il denaro disponibile.
Ho sperato che per me l’incubo fosse finito, ma così non è stato.
Ora, non sento più l’impulso di fuggire che mi ha ripetutamente tentato nonostante il rischio di ricevere una mitragliata alle spalle.
Ora non ho più paura, non lo avrei mai creduto, ma è così.
Ma basta! Finalmente tutto finirà, ma almeno quando finirà, lo decido io. E ho deciso che finirà adesso!
Sono pronto. Mi volto di scatto! E… non c’è più nessuno alle mie spalle.
Confuso, mi guardo intorno, il viale è deserto, come i prati che lo fiancheggiano. Non so come quei ragazzi abbiano fatto, ma debbono essersi dileguati fra le poche case non lontane dal cimitero.
Hanno avuto pietà di me? Hanno capito che la mia fucilazione sarebbe stata inutile?
No, in un attimo realizzo che non hanno mai pensato di assassinarmi.
Sento che li incontrerò di nuovo quei giovani, magari in banca, oppure nel mio studio, certamente per le strade del paese e semmai dovessi riconoscerli, farò finta di nulla.
Voglio solo convincermi che la rapina sia stata ordinata a quei figlioli solo perché necessaria alla sopravvivenza dei loro compagni perseguitati, che diversamente non l’avrebbero fatta un’azione così odiosa.
Non posso credere che siano solo dei brutali rapinatori, ma se così fosse ne sarei addolorato.
(*) Signor Nerairi, Non si spaventi! Signor Carlo, apra! Ci faccia entrare in casa! per piacere! Se ci trovano, ci accoppano! In casa vostra non entrano di sicuro! Per piacere Signor Nerairi!”.