Pietro Rainero. Laureato in fisica è stato docente di matematica e fisica in diversi licei. Collabora con riviste e siti web e scrive per il blog culturale “Alla volta di Leucade”. Ha scritto diversi racconti ed è presente in varie antologie. Ha ottenuto lusinghieri riconoscimenti in vari concorsi letterari. Partecipa al Concorso 50&Più per la prima volta. Vive a Acqui Terme (Al).
Se ne è andata il 4 ottobre in punta di piedi, nonna Elvira.
Se ne è andata dopo una lunga malattia, una malattia atroce che giorno dopo giorno ti cancella i ricordi ti annulla il cervello, frantumando in mille piccoli pezzi la tua memoria, il tuo essere, il tuo io.
Ma fino all’ultimo istante, di sicuro, un barlume di coscienza ha danzato nella sua mente devastata, ed è rimasto un ricordo: l’immagine della adorata nipote, quella nipote che le avrebbe letto poi, in chiesa durante l’estremo saluto, quelle parole così belle.
La tua Sara, cara nonna Elvira, che tante volte bambina hai accompagnato all’asilo, a pochi passi da casa tua, che tante volte hai tenuto per mano scortandola verso la scuola di musica, così piccola con sulle spalle un violino più grande di lei.
Con la quale hai cucito, cara nonna Elvira, hai cotto nel forno deliziose torte, a cui hai letto fiabe e racconti, che hai curato e coccolato come solo una nonna con un sorriso come il tuo avrebbe potuto fare.
Nei tuoi occhi sempre quel sorriso, buono, quella gentilezza ed educazione che ti faceva ringraziare persino i medici o le infermiere che ti procuravano dolore, quella generosità che ti faceva accogliere sempre, a braccia aperte, chiunque transitasse per casa tua, e per il quale avevi sempre un pensiero, un biscotto da offrire, una parola gentile di incoraggiamento.
Te ne sei andata, ormai sfinita, proprio quando la tua Sara ritornava di corsa, da lontano, per abbracciarti ancora. Ti ricordo mentre, ormai bucata dal male inesorabile, sottolineavi ancora qualche frase con la matita, mentre leggevi “Topolino”, o facevi finta di leggerlo, mentre guardavi affascinata, sulle riviste, la foto dei bambini.
Io penso che tu leggessi ancora, sai? Perché col dito seguivi l’andamento della stampa, riga per riga, e perché se ti veniva sporto il giornalino a testa in giù, tu subito lo rigiravi nel verso giusto.
Sì, io credo proprio che tu leggessi ancora, fino a qualche settimana prima della fine.
E chissà, anche se non parlavi ormai da mesi, forse qualche lontano ricordo volava ancora nel tuo cervello, qualche pagina non del tutto lacerata del diario di una lunga esistenza.
Forse vedevi ancora te e Sara imbastire un lungo ed elegante abito per la Barbie, forse osservavi te e Sara, le mani impastate, posizionare in forno il dolce per il compleanno, forse sentivi Sara, la tua nipote, quella nipote che ti avrebbe dedicato poi in chiesa quelle stupende parole, ripeterti ancora una volta la lezione del giorno dopo.
Forse ti vedevi ancora, e ti sarà scappato un sorriso, quel sorriso così dolce destinato al mondo intero, ti vedevi ancora compiere queste cose.
Forse … chi può dirlo?
Forse vedevi ancora queste cose, nelle ultime ore prima di chiudere gli occhi…
Io penso di sì; che un amore così forte, una dedizione così totale non possano essere scalfiti neppure da una malattia così cattiva, così subdola.
Amare, che vuol dire: voglio che tu viva!
Che vuol dire: mi prendo cura di te, ti preparo per le sfide della vita, ti lascio andare, se è questo il tuo bene, lontano da me pur se soffrirò per questo. Ti posiziono come una freccia sull’arco, e poi lascio andare la corda e scocco la freccia; ti lascio andare laggiù, verso il tuo percorso di vita, con la speranza che il dardo atterri lontano.
Ti si leggeva negli occhi, quel tuo sconfinato amore, quel sentimento per quella nipote che poi ti avrebbe detto quelle parole, quelle parole importanti, in chiesa.
Puoi essere fiera: rimasta vedova in giovane età da un giorno all’altro, nel modo più inaspettato ed atroce, avevi vinto mille difficoltà e con grandi sacrifici e privazioni eri approdata al successo: un figlio ed una figlia, ambedue annichiliti dalla perdita del padre, ambedue laureati, armati degli strumenti per affrontare la vita.
Due figli laureati e poi, molti anni dopo, l’arrivo di quella nipote, che ti aveva offerto un’altra possibilità di riversare amore, un altro essere a cui sorridere per anni ed anni con quel dolce viso.
Sì, ce l’hai fatta, nonna Elvira.
Con quel sorriso dolce come miele, che dirigevi anche (sì, lo ricordo bene!) anche, che tenerezza, su quella piccola bambola di Natale di stoffa rossa con il grembiule beige, o sulla Minnie di plastica.
Le tenevi tra le dita e le guardavi con affetto, quasi per proteggerle, quasi fossero pure loro tue nipoti, tue discendenti.
Sai cosa ti dico? Mi piace pensare che anche adesso, da lontano, lontano, chissà da dove, tu sorrida ancora a quella cara nipote che in chiesa, in un triste giorno di inizio ottobre, ti ha recitato quelle bellissime parole, queste bellissime parole:
“Ciao nonnina, finalmente posso parlarti con la certezza che tu mi capisca ora più che mai, dato che lassù, fortunatamente, le malattie non esistono.
Sei stata e sei ancora una donna bellissima, tanto esteriormente quanto interiormente.
Tanto bella che ho sempre mostrato le tue foto ai miei amici come un vanto, perché non è da tutti poter dire di avere una nonna così.
Quando stavi bene mi hai insegnato tanto, ma credo che le cose più importanti io le abbia imparate nel periodo in cui le parole erano finite.
Dico questo perché nel momento in cui hai iniziato a dimenticare il mio nome, ingenuamente ho pensato che fosse meglio per te morire: ma quanto mi sbagliavo! Ogni volta in cui tornavo a casa tu eri la certezza; sempre lì sulla poltrona con quel sorriso dolcissimo che mi diceva: “Guarda che ti riconosco! Non potrei mai dimenticarmi di te!”.
Ma per fortuna sei rimasta con noi ancora molti anni, e penso di non aver mai respirato così tanto amore in casa nostra come in questo ultimo periodo; perciò, posso solo dirti GRAZIE!”.