Ecco come in Abruzzo si recuperano piante antiche, bacche millenarie e colture dimenticate. La storia di Emanuela: dall’università ai campi, per il recupero delle tradizioni.
Cosa significa lasciarsi guidare dalle radici del gusto, muoversi tra colture dimenticate e piante antiche? Lo abbiamo chiesto a Emanuela D’Angelo (nella foto di apertura), un’archeologa preistorica che ha rimodulato la propria passione per la ricerca adattandola alla terra. Come? Mettendo su una piccola realtà imprenditoriale di agricoltura montana, a gestione familiare. Siamo a Massa D’Albe, in provincia de L’Aquila, ed è qui che Emanuela ha scelto di accettare la sfida: quella di non lasciare un territorio – che è il suo – ma anzi, di viverlo, valorizzarlo e comunicarlo tutto intorno. Così è nata la sua azienda, che si chiama appunto “Le Radici del Gusto” e da qui è partita per un vero e proprio cambio di vita.
«Tutto è nato dai miei studi – ci racconta -. Da un percorso universitario finito perché sono finiti i progetti di ricerca sui quali stavo lavorando. Una difficoltà in un settore in cui già si lavora da nomadi, coi i cantieri che ti portano sempre altrove. Una condizione incompatibile col mio essere mamma perché, da quando è nata mia figlia, non ho più avuto la possibilità di spostarmi in maniera così autonoma e indipendente».
Ed è così che è scattata la scintilla, così è nata l’intuizione di dedicarsi al recupero, alla coltivazione e alla trasformazione di frutti, verdure, legumi ed erbe provenienti da piante antiche e colture dimenticate, tipiche di quell’area.
«Raccogliamo bacche millenarie provenienti da vegetazione spontanea – dice -. La zona ne offre in grande quantità. In più, recuperiamo varietà antiche utili a rivisitare vecchie ricette della tradizione agro-pastorale abruzzese in “modo” innovativo».
Il “la”, ricorda Emanuela, arriva proprio in un cantiere. «In una grotta dove stavamo effettuando delle indagini, assieme ad altri archeologi, abbiamo ritrovato bacche preistoriche che gli uomini avevano raccolto e utilizzato, piante antiche di 10mila anni. Bacche che risalgono al Mesolitico e la cui datazione è stata possibile grazie all’intervento di botanici che ne hanno anche stabilito la specie d’appartenenza. La curiosità? Sono specie ancora esistenti, ma finite pressoché dimenticate. È allora che mi sono detta: perché non riutilizzarle, visto che hanno tutta una serie di proprietà che però nessuno considera?».
Perciò Emanuela ha deciso di farne il centro della propria attività investendo 60mila euro di tasca propria, cui ha aggiunto un contributo regionale nell’ambito del Psr (Piano di Sviluppo Rurale) pari a 40mila euro. Una vera e propria scommessa che tiene anche dentro la valorizzazione di terre dimenticate, «le stesse che i nostri nonni avevano abbandonato da decenni».
Per lei, «è come riannodare i lacci di una storia che è individuale, ma anche collettiva. E non ci stupisce che gli anziani strabuzzino gli occhi all’idea che noi giovani si torni alla terra: per loro lavorarla è stata sudore e sacrificio. Oggi, con la tecnologia e la conoscenza, è tutto più semplice».
E poi metti a portare in tavola legumi pregiati come il fagiolo “poverello”, piante officinali, zafferano. Un approccio di indagine e riscoperta di sapori antichi che l’hanno spinta anche a impiantare un frutteto con varietà autoctone di mele (cotogno, mela piana e mele rosa), pere invernali, ciliegie e visciole. Mentre dalla raccolta spontanea provengono bacche di rosa canina e prugnolo, fiori e bacche di sambuco, timo e santoreggia.
«Il recupero dell’antico lo metto dappertutto, anche nella ciotolina di latta che avevano i nonni. Fa parte di me – continua Emanuela -. Ad ottobre abbiamo raccolto le mele. In questo mese pensiamo al prugnolo. La rosa canina segue a dicembre, mentre il sambuco si raccoglie a giugno». Una scansione del tempo accurata e metodica: in passato come oggi.
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