Dall’entrata in vigore del provvedimento – lo scorso gennaio – è crollato del 90% il flusso giornaliero delle domande. Da una media di 4.000 si è passati alle 300 dello scorso agosto. Ma quali sono le ragioni del sì e del no?
Che Quota 100 avrebbe interessato meno persone rispetto alle attese si era capito presto. Ad oggi sappiamo che le domande presentate entro il 10 di settembre sono state 175.999, mentre quelle accolte 110.733. Una misura che divide, quella voluta dal precedente governo gialloverde e che riguarda i lavoratori con almeno 62 anni d’età e 38 di contributi. Ma a chi conviene?
Secondo molti commentatori, Quota 100 è un provvedimento che diventa più attrattivo per quelle fasce di lavoratori che hanno avuto nel corso del tempo una retribuzione un po’ più alta e che hanno già una condizione economica di partenza che gli consente di ammortizzare la perdita sull’assegno previdenziale. Tra loro, Marco Giordano, 63 anni, ex dipendente Inps con 42 anni di anzianità contributiva: «Ho aderito a Quota100 perché dopo tanti anni di servizio ero stanco. Stanco di un lavoro che cominciava a diventare un po’ pesante tra calo del personale e incombenze sempre nuove».
Eppure, in molti, nella sua stessa condizione, hanno preferito attendere per raggiungere la pensione di anzianità. Bisogna infatti considerare che i dipendenti pubblici hanno l’erogazione completa del trattamento di fine servizio anche dopo sei anni dalla maturazione del requisito della pensione. Una penalizzazione significativa, specie se sommata al fatto che l’anticipo previdenziale comporta una decurtazione del trattamento dell’assegno previdenziale. Cosa che non ha affatto turbato Marco Giordano che, pur rinunciando a circa 300 euro al mese, ha scelto di andare in pensione anche perché potrà contare comunque su un importo intorno ai 2.000 euro.
Altro discorso per chi, come Stefano Ciangola, non rinuncerà ai 200 euro al mese che gli toglierebbe Quota 100. È un operaio dell’Acea con due figli che al momento non lavorano. «Ho cominciato a lavorare a undici anni. Avrei voluto fermarmi, arrivato a questo punto, soltanto che non ce n’è la possibilità. Il mio nucleo familiare è composto da quattro persone e tutti facciamo affidamento sul mio stipendio. Fatti due conti, Quota 100 non mi conviene, perciò tiro avanti finché posso».
Da molti, l’anticipo previdenziale, viene dunque considerato una cosa giusta. I lavoratori avrebbero diritto ad andare in pensione dai 41 anni di contributi, ma i critici sostengono che occorrerebbe ripristinare la flessibilità per tutti. Il nodo ulteriore? Il fatto che si sia in presenza di una sperimentazione che andrebbe invece affrontata in una riforma più organica con un grande piano per l’occupazione. I fatti dicono che non c’è nessuna procedura di reclutamento straordinario, col rischio di bloccare i servizi ai cittadini perché – chiaramente, nel pubblico – non ci sono immissioni in ruolo di nuovi lavoratori a sostituire l’organico fuoriuscito.
È anche per questo che, col cambio della maggioranza di governo e la nascita dell’esecutivo sostenuto da Pd, M5S e Leu, si è già aperto il dibattito su ciò che sarà di Quota 100. Per il momento, tra coloro che hanno detto sì, molti lavoratori che, negli anni, si sono dovuti destreggiare con mestieri usuranti o comunque piuttosto faticosi. Così, Pino Galati, ex casellante che ha optato per Quota 100: «Quando ho capito che potevo andare in pensione due anni prima, non me lo sono fatto ripetere». Pino, infatti, ha 65 anni e 41 di contributi versati lavorando in autostrada. «Anziché andare via a 67, sono andato a 65. Con la legge Fornero, avrei preso 2.150 euro; aderendo a Quota 100 prendo una pensione di 2.040: 110 euro in meno, ma ho anticipato di due anni la mia pensione». Un lavoro impegantivo, il suo, che lo ha spinto a darci un taglio: «Si lavorava anche il sabato, la domenica, i festivi lasciando magari la famiglia a casa. Mi accontento di quello che ho fatto: 41 anni mi bastano». Dello stesso avviso Bruno Di Tommaso, coetaneo, ferroviere per trentasei anni. Turnista alla stessa maniera: «Adesso prendo 2.160 euro; se avessi lavorato gli altri due anni e mezzo, sarei arivato a 2.200/2.220. Non ne valeva la pena».
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