Perché l’orrore dell’Olocausto non si ripeta più è necessario ribadire la sua Memoria, nelle parole e nelle testimonianze di chi, quella storia, l’ha vissuta sulla propria pelle. Con un marchio indelebile.
«Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo che lavora nel fango, che non conosce pace, che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo come una rana d’inverno». Sono le parole di Primo Levi, sopravvissuto all’orrore dei campi, che raccontano, dalle pagine di Se questo è un uomo, quel periodo buio e doloroso della storia: lo sterminio degli ebrei nei campi di concentramento. Sei milioni di uomini e donne morirono ad Auschwitz, Treblinka 2, Belzec, Sobibor, Chelmo e altri. Sei milioni. Eppure “calcolare il numero esatto di persone che morirono come conseguenza delle politiche naziste è un’impresa impossibile. Non esiste alcun documento che riporti con esattezza il numero delle vittime. Per calcolare con precisione il numero totale di perdite umane, gli studiosi, le agenzie governative e le organizzazioni ebraiche hanno contato, fin dal 1940, su diversi dati, inclusi i censimenti, gli archivi tedeschi e dei paesi dell’asse, e indagini compiute dopo la guerra”, si legge sull’Enciclopedia dell’Olocausto.
Per non dimenticare il genocidio più feroce della storia, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha istituito, il 27 gennaio, la “Giornata delle Memoria”, per ricordare quel giorno del 1945 quando le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. Gli ebrei sopravvissuti poterono provare a ricominciare a vivere, a tornare nei ghetti – ora “liberati” – dove il regime nazifascista li aveva confinati. Tra le strade del ghetto ebraico di Roma, il più antico al mondo, sono ancora forti i simboli di quell’orrore. A cominciare dalle “pietre di inciampo” – collocate anche in altre zone della città e del resto d’Italia – che ricordano le vittime della Shoah: sampietrini di ottone che indicano un nome, un cognome, la data della deportazione e quella dell’assassinio, posizionate davanti al portone di casa. Una targa ricorda poi il rastrellamento del 16 ottobre del ’43, quando, nonostante la comunità ebraica avesse raccolto la quantità di oro chiesta dal comandante della Gestapo per evitare un’altra deportazione, le SS nel giorno di Succot – la festa delle Capanne – catturarono 1.259 persone (uomini, donne e bambini): di loro solo 16 tornarono vive dai campi. In via del Portico d’Ottavia si trova la Fondazione Museo della Shoah, voluta dall’allora sindaco di Roma, Walter Veltroni e dal Comitato promotore del progetto Museo della Shoah, costituitosi alla fine del 2006. A Mario Venezia, presidente della Fondazione e figlio di Shlomo Venezia, sopravvissuto all’Olocausto e scomparso nel 2012, abbiamo chiesto la storia di quegli anni e i progetti futuri.
Un numero tatuato sul braccio di suo padre ha avviato la sua curiosità. Come ha scoperto l’orrore subìto?
Noi figli, fin da piccoli, vedevamo il tatuaggio sul braccio di nostro padre. Era una anomalia per quei tempi, i tatuaggi ancora non esistevano come ora. E questa anomalia ci faceva riflettere su quello che poteva essere successo ma non lo sapevamo. Non abbiamo avuto subito una spiegazione, perché eravamo bambini. La scoperta poi è stata graduale, è avvenuta nel corso del tempo. Alle scuole medie ci diedero da leggere un libro di Primo Levi e in quella occasione mi sono accorto che mio padre quei temi li conosceva abbastanza e ho cominciato a capire che lo riguardavano. Poi, da adulto, durante il primo viaggio della memoria con lui, organizzato dal Comune di Roma, ho iniziato a capirne di più.
Suo padre è sopravvissuto a Auschwitz. Come ha fatto a ricominciare? Come ha ripreso in mano la sua vita
Ci sono voluti anni. Molto importante è stato il rapporto di unione con mia madre, una donna più giovane di lui con la quale ha costruito una famiglia. Questo, a mio avviso, è stato l’elemento di forza.
Per lungo tempo l’hanno taciuta, poi sono diventati testimoni di quell’orrore. Quando i sopravvissuti hanno deciso di
iniziare a raccontare la loro storia?
Nel caso di mio padre, questo è avvenuto molti anni dopo. Lui non aveva raccontato niente a noi – che eravamo la sua famiglia – e nemmeno fuori. L’ha fatto dopo una manifestazione piuttosto violenta dei naziskin negli Anni ’90, che ha riguardato anche luoghi che mio padre era abituato a frequentare, il bar, il negozio degli amici. L’ostilità dei naziskin gli ha ingenerato il desiderio di reagire in qualche modo e ha aderito all’iniziativa della testimonianza. È partito tutto da lì.
Come e se sono cambiate le sue scelte dal giorno in cui ha conosciuto la storia di suo padre?
Ho conosciuto la storia di mio padre e quella di altri sopravvissuti un po’ per volta. Quando si ha davanti una visione complessiva e si vede l’impegno di persone così anziane – insieme a lui anche Liliana Segre – si rimane colpiti. Questo ha molto influito sulle mie scelte successive. Ho riflettuto sul fatto che se anche noi – che siamo famigliari dei sopravvissuti – abbiamo ricevuto una informazione così vaga, è necessario fare qualcosa affinché la storia si conosca nella sua interezza per comprenderla e per ragionare.
Nel 2008 nasce la Fondazione Museo della Shoah. Perché e quali obiettivi persegue?
Nel 2008 nasce su iniziativa dell’allora sindaco di Roma, Walter Veltroni che voleva che Roma avesse il Museo della Shoah come le grandi capitali occidentali. Io ho iniziato a occuparmene sette anni fa e ho pensato – raccogliendo anche il parere di altri – che oltre alla costruzione di un museo fosse importante anche la divulgazione scientifica e didattica. Su questo abbiamo puntato molto. Organizziamo mostre, convegni, attività didattiche. Il 23 gennaio presentiamo il film su mio padre, Il Respiro di Shlomo, con la regia di Ruggero Gabbai e Marcello Pezzetti, prodotto dalla Fondazione, per il 24 abbiamo organizzato un incontro dedicato alle scuole con Edith Bruck, che coinvolge centomila studenti. Il 26 gennaio presentiamo la nostra mostra su alcuni campi di concentramento e le vicende che li hanno ricordati.
Secondo lei, oggi, quella storia si può ripetere? Vede dei pericoli che la storia si possa ripetere in altre forme?
Le rispondo con una considerazione. Ricordiamo che Liliana Segre deve essere scortata per le minacce che riceve. Questo è un elemento significativo. Perché se una signora sopravvissuta di 92 anni che, non per sua scelta, deve girare con la scorta, ci deve far riflettere e ci basta per capire.
Come si combatte l’ignoranza che genera l’odio razziale?
Con iniziative a tutto campo. È importante considerare che determinati elementi non sono acquisiti per sempre ma si rinforzano con il corso del tempo. Ci vogliono dedizione e impegno civico. Non c’è una ricetta già scritta da seguire, bisogna anche adeguarsi perché la realtà cambia. Con l’impegno di tutti non si debella il fenomeno ma si può ridurre.
I sopravvissuti rappresentano un patrimonio di inestimabile valore e ineguagliabile testimonianza. Quando non ci saranno più, secondo lei, come si potrà trasmettere la memoria?
Con l’impegno. Bisogna pensare che la società cambia, cambiano i modi di comunicare, le sensibilità dei ragazzi, le attenzioni del grande pubblico. È importante impegnarsi e non mollare mai.
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