Silvia Riccio è musicoterapeuta da vent’anni. Porta avanti iniziative in ambito preventivo, terapeutico e riabilitativo con detenuti, pazienti oncologiche e bambini con disabilità. Per lei «tutti così possono mettersi in ascolto»
Se esiste un modo per uscire fuori da uno stato di costrizione, fisica o mentale, è senza dubbio la musica. E quando alla musica si abbina la corporeità, le vie di fuga diventano possibili. Per qualche ora, il dolore e la distanza si fanno invisibili, lasciano spazio all’espressione autentica del corpo, superando barriere e muri. Lo sa bene Silvia Riccio, musicista e musicoterapeuta, che da anni promuove attività di musicoterapia (uso clinico basato sull’evidenza scientifica dell’elemento sonoro musicale, ndr) nelle scuole, negli ospedali con le pazienti oncologiche (Suonodonna), negli istituti di pena e in strutture che accolgono persone con disabilità. «L’obiettivo dei miei progetti è mettere a proprio agio le persone così che possano raccontarsi, perché l’essere umano ha bisogno di esprimersi», dice. Riccio, da tempo, è impegnata a promuovere attività in ambito penitenziario: porta avanti ‘Musica dentro’, progetti nel carcere romano Regina Coeli con i detenuti in attesa di giudizio, con le detenute e i loro bambini presso il carcere Rebibbia – insieme all’Associazione Leda Colombini -, con i detenuti collaboratori di giustizia presso l’istituto di pena di Paliano, fuori dal Lazio anche in Umbria, nel carcere di Orvieto.
«La musica permette ai detenuti che si trovano in una fase depressiva di grande frustrazione di esprimersi anche attraverso la comunicazione non verbale, una modalità molto radicata e autentica in noi», spiega. Riccio, con il suo metodo affinato negli anni di lavoro, però va oltre: non si ferma a un approccio meramente musicale e promuove la musicoterapia integrata, quindi non solo musicoterapia attiva e ricettiva ma anche l’uso di altri linguaggi artistici, musica ma anche danza, movimento, canto e l’utilizzo di strumenti musicali. Una modalità che punta su un aspetto in particolare: il gruppo, «perché attraverso i laboratori, quindi l’esperienza collettiva – continua Riccio – è possibile favorire l’incontro con sé stessi e con gli altri, in quanto si facilita la conoscenza dell’altro e quindi anche il rispetto tra tutti diventa possibile. Si crea così un’atmosfera di armonia e il dialogo sonoro è realizzabile». Non solo anni di studio e di impegno ma pure l’ideazione di strategie comunicative che nella musicoterapia integrata di gruppo – che Silvia mette in atto negli istituti di pena e nelle altre strutture in cui opera – diventano vincenti. «Per fare in modo che le persone si fidino e inizino a raccontarsi attraverso il linguaggio del corpo e delle musica mi metto in gioco anche io, mi racconto, appunto, mi faccio conoscere», spiega.
L’abilità di Silvia sta nel creare identificazione con la musica e lo fa attraverso l’ascolto di brani e autori che sono vicini a chi frequenta i suoi laboratori. «Mi capita spesso di lavorare con detenuti campani – ad esempio – e allora per creare identificazione con il territorio, la loro casa e la loro terra – così che possano aprirsi all’ascolto e al dialogo ed essere predisposti verso l’altro – propongo brani di cantautori a loro noti, Pino Daniele è senz’altro uno degli artisti più conosciuti e più amati che crea facilmente empatia», racconta. Ed è proprio sulle note e sul testo delle canzoni note che Riccio trasforma i detenuti in ‘songwriter’: chiede loro di riscrivere i testi delle canzoni seguendo le loro emozioni e liberando le melodie che le accompagnano. «Una volta riscritto, quel testo, diventa il testo di tutti», dice la musicista. Lavorare dietro le sbarre, con persone ristrette della loro libertà e affetti e spesso in condizioni di forte disagio per i motivi più disparati è una sfida che Silvia vince ogni giorno. «Le mie sono giornate intense – spiega -, la mia professione però non solo mi offre l’occasione di dare qualcosa ma anche l’opportunità di riceverla; è chiaro che una volta a casa devo resettarmi e affrontare nuove esperienze. Ho iniziato a studiare musica tardi rispetto alla norma, generalmente si inizia da piccoli, io avevo 12 anni e forse proprio perché più grande ho potuto capire meglio alcune cose, una su tutte: la musica mi metteva e mi mette tutt’ora in connessione con me stessa e allora cerco di rendere possibile questo con la mia professione: lasciare che ognuna delle persone che incontro sia libera di essere sé stessa».
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