Si pensa che il colonialismo sia cessato da tempo, che sia solo un cupo ricordo di secoli trascorsi. Non è così. Il colonialismo esiste ancora, pur se con forme diverse rispetto a quelle antiche di conquista, occupazione, a volte sterminio. Una delle sue manifestazioni moderne più subdole e devastanti è il fenomeno del cosiddetto land grabbing. Si tratta letteralmente di “appropriazione di terre” rurali, e cioè di terreni coltivati dalle popolazioni locali che vengono espropriati, affittati o acquistati da parte di investitori internazionali e governi stranieri per destinarli a un uso commerciale. Si chiama appropriazione proprio perché i piccoli coltivatori locali non vengono consultati e i loro interessi non sono tenuti in alcuna considerazione, né dal governo o ente del territorio locale né dall’investitore che ‘colonizza’. Parliamo di una miriade di piccoli appezzamenti lavorati per la sussistenza, sottratti in blocco e trasformati in migliaia di ettari di monocolture intensive da esportazione, cioè destinate alla soddisfazione di bisogni alimentari non della popolazione che vive quel territorio, che viene limitata o privata della possibilità di indipendenza per il sostentamento, ma per soddisfare i modelli di consumo del Nord del mondo.
Il fenomeno esiste da molti anni, ma è esploso con lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, che ha contribuito a trasformare la terra in un asset strategico di investimento, anche per attori diversi dalle multinazionali. Esplosa la bolla dei mutui subprime negli Stati Uniti, infatti, una grande quantità di capitali è fuggita dai mercati tradizionali alla ricerca di più sicure fonti di profitto. Un esercito di banche, fondi d’investimento, fondi pensione, fondi di private equity e compagnie di assicurazione ha cominciato ad acquistare terre in tutto il mondo, provocando un immediato innalzamento dei prezzi, e deprivando i piccoli produttori locali di qualsiasi margine di azione. Il land grabbing è così divenuto una sorta di cuscinetto per attutire le perdite e creare capitale garantito, crescendo da allora del 1.000 per mille, colpendo le aree meno sviluppate del pianeta e spingendo alla fame e all’esodo forzato migliaia di contadini. Secondo il report del 2023 I padroni della Terra di Focsiv (Federazione degli organismi di volontariato internazionale di ispirazione cristiana), il fenomeno riguarda circa 114,8 milioni di ettari di terra fertile al mondo. Negli ultimi anni hanno cominciato ad attivarsi una serie di misure di controllo e di tutela delle popolazioni locali ma, parallelamente, i meccanismi sono diventati più sofisticati e dietro un investimento che sembra finalizzato allo sviluppo del territorio si nasconde, di fatto, spesso, un accaparramento. Una forma di colonialismo sottile, difficile da riconoscere, che sfrutta lo stato di necessità dei paesi più poveri per creare opportunità di investimenti, in condizioni opache, offrendo denaro in cambio del controllo, prima economico, poi culturale, dei territori. Si tratta di vere e proprie ‘espulsioni’, di persone, di luoghi, di porzioni di terra, come le definisce Saskia Sassen, una delle figure più importanti della sociologia contemporanea: siamo di fronte a processi che depauperano e rendono marginali sia interi gruppi sociali sia territori, «fuori dai confini del sistema». Oggi, dunque, sono i paesi del Sud del mondo, che vivono prevalentemente di pesca, agricoltura e pastorizia, a pagare le conseguenze dell’accaparramento di terra. Nei prossimi anni però l’impatto del fenomeno diverrà globale e gli effetti del land grabbing si avvertiranno sempre di più in Europa. Perché è una pratica che è tra le cause degli attuali flussi migratori, sia direttamente sia indirettamente. Direttamente con la trasformazione di intere popolazioni in rifugiati in cerca di nuove terre in cui vivere, non avendo più la libertà di sostentamento nella propria. Indirettamente, per esempio, con il disboscamento di intere foreste, abbattute per lasciare spazio alle colture intensive, prosciugando le già scarse riserve di acqua, con conseguenze disastrose per il suolo che diventa sterile, inerte, non più in grado di essere produttivo.
Francesca Santolini, giornalista scientifica, saggista, divulgatrice ambientale. Collabora con il quotidiano La Stampa, dove scrive di ambiente, clima e sostenibilità e con la trasmissione Unomattina in onda su Rai Uno, dove si occupa di ambiente. Ha partecipato a numerose trasmissioni televisive e radiofoniche intervenendo sui temi d’attualità legati all’inquinamento e al clima. Per Marsilio ha scritto “Passio Verde. La sfida ecologista alla politica” (2010), mentre per la casa editrice Rubbettino “Un nuovo clima. Come l’Italia affronta la sfida climatica” (2015) e “Profughi del clima. Chi sono, da dove vengono, dove andranno” (2019).
© Riproduzione riservata