Mi scrive una lettrice di Milano, talmente preoccupata di essere riconosciuta che mi avvisa: «Se non le dispiace le do un nome falso. Betty, Betty da Milano». Betty mi vuole parlare del suo rapporto con i figli. Un maschio e una femmina, di 40 e 38 anni. Buona parte della lettera (cinque fogli coperti da una fitta calligrafia, elegante, come di una persona abituata a scrivere a mano) è dedicata a raccontare quanto è stata facile e splendida per lei la maternità.
Ha sempre lavorato, ma aveva un negozio, che al presente è gestito da una sua sorella più giovane, ed era padrona del suo tempo. Certe volte chiudeva per poterli andare a prendere a scuola, al catechismo, a pallavolo. Certe volte se li portava a bottega e li faceva giocare “al negozio” (una merceria) e scopriva con loro certe rimanenze che sembravano emergere dal passato come i tesori dei pirati. I suoi figli la amavano e lei li amava, non avevano bisogno di dirselo, erano contenti di stare insieme.
Questo finché erano piccoli. Poi sono diventati adolescenti e lì la faccenda si è complicata: con gli adolescenti devi esserci ma non devi farti notare, devi favorire la loro autonomia ma senza perdere il controllo su di loro, de vi dare dei limiti senza diventare un odioso carceriere. Insomma: sappiamo. Se impari a navigare sul mare inquieto dell’adolescenza, poi, puoi affrontare qualsiasi burrasca. Betty mi ha resa felice confessandomi che ha letto il libro che ho scritto nel 1993 insieme a mio figlio allora quattordicenne, In quale nascondiglio del cuore (Mondadori), e ne ha fatto tesoro.
Ha la mia età, lei, e suo figlio è di poco più giovane del mio. Si trattava, in quel piccolo saggio, di dire ai figli tutto quello che ritieni importante, necessario, utile prima di fare un passo indietro e imparare a tacere. Perché un passo indietro va fatto, quando i bambini diventano ragazzi.
«E quando diventano uomini – mi chiede Betty -, che cosa bisogna dire o non dire, come ci si deve comportare? Perché non esiste nessun galateo per madri anziane che possa normare questa complessa relazione fra adulti?». Hai ragione, cara Betty, la maternità, l’ho scoperto proprio quando i miei figli sono diventati grandi, è vagamente mostruosa: tu ami i tuoi figli esattamente come quando erano appena nati, ma la loro felicità, il loro benessere, la loro allegria, la loro salute non dipendono più da te. Come tutti, te inclusa, sono alle prese con la vita. Si innamorano, si disamorano, si annoiano, subiscono scacchi e delusioni, come tutti. E tu non puoi farci niente. Ci sei, li ami senza riserve e, come per qualsiasi essere umano, la consapevolezza che quaggiù qualcuno li ama in quel modo è fondamentale, ma non puoi più consolare o risarcire, dedicare il tuo tempo in cambio della loro gioia. Non sei fra gli attori protagonisti della loro vita. Ci sei, ma come certezza marginale, via di fuga, estrema salvezza se tutto il resto si mette male. «Posso sempre tornare da mia madre».
È triste? No, è nell’ordine naturale delle cose. Se ci pensi bene, in fondo anche tu, con tua madre e tuo padre, quando avevi 40 anni e loro ne avevano 65 o 70, ti comportavi come i tuoi figli conte. Li amavi a distanza. E apprezzavi che non mettessero troppo il becco nella tua vita. Ti irritavi quando raccontavano ai tuoi amici come eri carina quando ti facevi la pipì addosso, ma ti preoccupavi quando stavano male.
I genitori ideali, per un figlio/a adulto/a, stanno in salute, praticano uno sport non pericoloso, hanno una vita sociale soddisfacente ma non travolgente. E prestano volentieri una loro eventuale casa al mare (per la prima volta nella storia, i figli guadagnano meno dei genitori, non riescono a mettere da parte un euro e dipendono per il superfluo da nonne e mamme) oltre ad impegnarsi per morire il più tardi possibile.
Vedi, Betty, in fondo va bene così. Non è affatto un progetto da poco andare avanti fino alla fine. Con determinazione e leggerezza.
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