Esce in questi giorni nelle sale “Dante”, il film che il regista bolognese dedica alla figura del Sommo Poeta e di cui aveva anticipato trama e temi con il nuovo romanzo storico “L’alta fantasia”.
Alessandro Sperduti è Dante giovane, Sergio Castellitto è Boccaccio, con loro sono Enrico Lo Verso, Alessandro Haber, Gianni Cavina, Leopoldo Mastelloni, Mariano Rigillo, Milena Vukotic. Un cast di alto livello per Dante, il 46° film di Pupi Avati in questi giorni sugli schermi, a cui è dedicata la recensione della nostra rubrica “Cinema”, a pagina 90.
Maestro, il suo nuovo film è tratto dal romanzo L’alta fantasia, che è stato pubblicato sul finire dello scorso anno. Quali sono i punti di contatto e quali le differenze?
I punti di contatto sono tantissimi, perché la storia è praticamente la stessa. È evidente che la libertà che ti dà la scrittura è molto superiore a quella di una sceneggiatura. La tua immaginazione quando scrivi un film è grande quanto è grande il budget. Non puoi scrivere “migliaia di cavalieri occupano Campaldino”, quando sai di poter disporne di un centinaio al massimo. È tutto più contenuto. Poi la scrittura letteraria ti dà la possibilità di portarla avanti nel momento in cui senti di aver qualcosa da dire. Un film, invece, lo devi girare in quei giorni, in quelle ore per i quali sono convocati la troupe e gli attori. Mi auguro che il film, per coloro che hanno letto il libro, possa soltanto aggiungere qualcosa, non certamente deluderli. Anche per questo abbiamo girato con una grande troupe di 85 persone per 11 settimane, un impegno importante, inusuale per il cinema italiano.
Lei afferma che ha avuto bisogno della figura di Boccaccio, che fra l’altro fu il primo biografo di Dante e uno dei primissimi ammiratori e divulgatori della sua opera…
Sì, per quel pudore doveroso che un artista dilettante quale io sono deve nutrire nei riguardi di una figura di così alto livello. Mi sono servito di un episodio storico, riportato dal Bencivenni Pelli, per cui Giovanni Boccaccio fu incaricato dalla Congregazione di Orsanmichele, nel 1350, di portare a suor Beatrice, figlia di Dante, 10 fiorini d’oro a Ravenna, dove lei era monacata. Boccaccio, che era il più appassionato dantista che la storia ricordi, perché mai nessun poeta fece così tanto per un altro poeta, colse questa opportunità. E riunì numerose informazioni che gli servirono per scrivere la prima biografia di Dante, il Trattatello in laude di Dante Alighieri, cui fanno riferimento ancora molti studiosi contemporanei. Mi è sembrata un’opportunità narrativa straordinaria delegare Boccaccio ad andare a cercare l’Alighieri.
Per il romanzo e il film ha svolto particolari ricerche storiche?
Ho passato gli ultimi vent’anni quasi facendo solo questo. È una mia fissazione, un’ossessione, ma anche un grande piacere, perché non c’è niente di più piacevole, più straordinario dello studio. È una realtà che andrebbe comunicata ai ragazzi. Non solo ai ragazzi, alle persone di tutte le età. Io sono arrivato alla grande letteratura a trent’anni, e i trent’anni di allora corrispondono ai 45 di oggi, perché si avevano già alle spalle esperienze plurime. Io avevo già tre figli, avevo già fatto cinema, jazz e il direttore di una società di surgelati. Mi sono interessato a vari mondi letterari da adulto, ma quello di Dante è il più affascinante, anche perché lui stesso resta un personaggio misteriosissimo, del quale sono più le cose che non sappiamo di quelle che sappiamo. Pensi che non esiste neppure un autografo, non ha lasciato nemmeno una firma. C’è soltanto Leonardo Bruni, un secolo dopo la sua morte, che afferma di aver visto una lettera e ci riferisce di com’era la sua calligrafia.
C’è chi dice che abbia avuto tre figli, chi quattro, Boccaccio annota che è morto senza pubblicare gli ultimi 13 canti del Paradiso e che i figli li cercarono per otto mesi dopo la morte del padre, anche se probabilmente li avevano nascosti perché contenevano accuse abbastanza nette nei riguardi del papa. E scrive che, dopo aver tentato loro stessi di concludere l’opera ma accorgendosi di non essere minimamente all’altezza, Jacopo sognò il padre vestito di bianco che gli indicava dove fossero i canti. Allora chiamò il notaio Pietro Giardino, un sodale del cenacolo dantesco, con il quale di notte andarono nella casa dove Dante si era ritirato prima di morire, e in una fessura del muro ritrovarono i canti, ormai mezzi ammuffiti. Pensi se avessimo avuto la Commedia monca degli ultimi 13 canti… C’è qualcosa di ancora più sacrale: Dante conclude la Commedia e muore. Era destinata a risarcirlo. Immaginava che, una volta pubblicata, sarebbe stato riaccolto a Firenze nel suo bel San Giovanni e sarebbe stato finalmente considerato un poeta. Invece arriva alla frase “alla fine di tutti i desideri, quando mi sono liberato di tutti i legami terreni, vedo la morte muovere il sole e l’altre stelle”, alla visione oltre la quale non c’è nulla, al soffitto dell’immaginario di una persona di quel livello. È una coincidenza straordinariamente misteriosa, perché è difficile immaginare cosa avrebbe potuto fare se fosse vissuto altri vent’anni.
Quale esperienza particolare le ha procurato girare questo film?
Soprattutto mi sono reso conto che Beatrice è un personaggio che fu molto più consapevole di quanto abbiamo sempre pensato affidandoci all’esegesi di chi ne ha scritto. Prima di assumere il ruolo che ha nella Commedia, quando Dante la incontra nel Purgatorio e poi via via nel Paradiso, nell’immaginario è una specie di Barbie, di bambola il cui unico valore era estetico, perché era molto bella, invece mi sono accorto che fu consapevole anche del peso specifico che avrebbe avuto per l’Alighieri. Nella vita di Beatrice, per scelta o per destino, è tutto di un’efficacia estrema. Lui la incontra quando ha nove anni ed è evidente che lei lo guarda in un certo modo, gli lancia uno di quegli sguardi speciali che noi a Bologna chiamavamo “le lontananze”, perché sono modi di guardare che promettono cose. Credo che Beatrice a nove anni sapesse già essere fortemente allusiva. Poi per nove anni si è fatta inseguire, e non c’è niente di più efficace di farsi corteggiare senza concedere nulla. All’improvviso, poi, si gira e lo saluta, facendolo infiammare definitivamente, ma dopo due anni sposa un altro, Simone Bardi, un ricco finanziere del quartiere. C’è qualcosa di più doloroso di vedere il proprio amore sposare un altro?
Infine, dopo due anni muore, producendo la propria assenza, e non c’è niente di più presente dell’assenza. Un buco che rimarrà per sempre nel cuore di Dante, benché lui, come scrive Boccaccio, sia stato un lussurioso che non ha certamente trascurato le donne. Ha avuto addirittura una storia d’amore nel Casentino con una mugnaia gozzuta, come ho scritto nel libro e mostrato nel film. Sapeva apprezzare le donne, tuttavia Beatrice è rimasta l’archetipo più alto dell’essere donna in tutti i modi possibili e immaginabili. Quando ho girato il matrimonio di Beatrice, con Dante giù in fondo, fuori dal cancello della chiesa che intravede la cerimonia, a un certo punto ho deciso che lei si doveva girare a osservarlo. Ma quando ho visto lo sguardo di Carlotta Gamba, l’attrice straordinaria che la interpreta, non sono riuscito a dare lo stop. Sono rimasto per minuti immobile in silenzio, fisso su quello sguardo, con la troupe che mi scrutava e mio fratello produttore che mi dava di gomito; non riuscivo a staccarmi da quello sguardo che aveva un effetto quasi terapeutico, mi trasferiva probabilmente verso un rapporto spirituale molto elevato, di una qualità così assoluta, di una bellezza così definitiva per cui io, per qualche minuto, sono stato veramente Dante Alighieri.
L’alta fantasia (Solferino)
Il libro “L’alta fantasia” e “Dante”, il film che lo stesso autore, Pupi Avati, ne ha tratto, raccontano, come dice il sottotitolo del romanzo, “Il viaggio di Boccaccio alla scoperta di Dante”. Un viaggio immaginario cui viene chiamato il maggior estimatore del Sommo Poeta per portare a sua figlia, diventata suor Beatrice, una borsa di monete d’oro, che la città di Firenze ha deliberato donarle per compensare l’esilio ingiustamente subito dal padre. Con “molto di vero, molto di verosimile e molto frutto della sua immaginazione”, Avati ci immerge in un Medioevo reale, in cui Dante è ancora in odore di eresia, per raccontarci sia le vicissitudini del viaggio di un Boccaccio affetto dalla scabbia, sia quelle della sua ricerca di sviscerare l’“enigma Alighieri”, ripensandone la vita, dalla fanciullezza all’incontro con Beatrice, dall’amicizia/scontro con il Cavalcanti all’ambasceria a Roma, dalla cacciata da Firenze, con la confisca di tutti i beni, alla morte in miseria.
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