Il regista Pupi Avati tra sentimenti e amori della terza età, alla vigilia di un nuovo lavoro cinematografico che lo porterà oltreoceano dal titolo “L’orto americano”. Il commento sullo stato di salute del cinema italiano.
Pupi Avati, 85 anni, sta lavorando al suo nuovo film L’orto americano, che lo porterà a girare fino negli Usa. Il cinema continua a essere per lui «una dipendenza. Sin da bambino sono stato educato al racconto. Non posso farne a meno – dice a 50&Più -. Bisognerebbe educare anche i giovani di oggi al racconto e al cinema».
Avati, il film di Paola Cortellesi sta avendo un grande successo nelle sale. Qual è lo stato di salute del cinema italiano secondo lei?
Sul fronte della qualità, mi sembra che i film siano più ambiziosi, dotati di un senso e anche più aperti alla ricerca e alle opportunità di far esprimere giovani autori e attori. Con gli incassi, però, non ci siamo. Fatta eccezione per il caso clamoroso di C’è ancora domani, continuano a essere molto al di sotto delle medie sulle quali potevamo contare. C’è una sorta di rifiuto della proposta italiana soprattutto da parte delle multisale. I nostri film lì non raggiungono neppure le prime dieci posizioni in classifica. E questo è molto grave, perché il cinema italiano è stato aiutato. Sono state realizzate molte pellicole con il tax credit e con varie forme di sovvenzione delle varie Film Commission regionali. Eppure non hanno dato quella risposta che ci si aspettava.
Lo streaming quanto influisce su questa situazione?
Le piattaforme hanno confuso le acque. Ci sono i film e le serie, e ci sono le pellicole di cui non si capisce il destino. Esistono film che non vanno neppure in sala e questo ha creato una disabitudine che noi abbiamo sperimentato sulla nostra pelle con questi incassi irrisori, recuperando solo dopo con i passaggi televisivi. Per me il problema più grande rimane però il rapporto con la multisala. Perché il pubblico lì va a vedere più i blockbuster americani e questo crea una disaffezione nei confronti del nostro cinema. Ci sono sale che sono state chiuse senza che venissero aiutate e incoraggiate a rimanere aperte. Sale che propongono un cinema di qualità. Un tempo l’esercente partecipava di più all’atto creativo di un film, investiva sul progetto e ne faceva parte. Un atteggiamento che ho ritrovato nelle arene estive. Se si fa un’analisi degli incassi lì il cinema italiano è andato benissimo, cosa che non succede durante la stagione invernale.
In che modo si potrebbe intervenire per cambiare le cose?
Questo trend potrebbe essere rovesciato portando il cinema nelle scuole come materia di studi, in modo da acculturare cinematograficamente il pubblico, perché c’è un deficit sull’apprezzamento della qualità che è esplicito. Il nostro cinema per tradizione non punta su tecnologie, pomposità e grandiosità, ma sul senso del racconto, sull’emozione. Il nostro è un cinema di contenuti che i giovani non conoscono e devono conoscere. Il mio Dante è stato visto da migliaia e migliaia di ragazzi nelle scuole e ha avuto una funzione didattica non trascurabile.
La voglia di continuare a fare cinema dove la trova?
Io ho una dipendenza che deriva dal fatto che sono stato educato sin da bambino a raccontare. Vengo dalla cultura del racconto. C’eri, in quanto raccontavi. Da me, in campagna, non c’era il cinema. Sono cresciuto ascoltando i racconti dei mie nonni e delle mie zie, e ho ereditato questo piacere del raccontare che è ancora in me, malgrado la mia età.
Nei suoi ultimi film, Lei mi parla ancora e La quattordicesima domenica del tempo ordinario, ha parlato di sentimenti e amori della terza età. Il cinema quanto dovrebbe dare spazio a questa fase della vita?
Ognuno di noi deve parlare di quello che sa e quello che conosce meglio. Io non potrei raccontare gli adolescenti, di loro non so nulla. Di una persona anziana, invece, so tutto, perché sto vivendo la terza età. Questa fase della vita conclusiva ha un suo fascino. Ha degli aspetti penalizzanti, certo. Invecchiare non è piacevole e non si augura a nessuno. Ma ti porta a conoscere molto di più della vita e degli altri, cosa avresti dovuto fare o non fare. Fisicamente diventi recalcitrante, ma intellettualmente io mi sento ancora più ragazzo, aperto a quello che potrà ancora accadermi. Mi illudo di avere chissà quale futuro. Da anziani si torna un po’ bambini, ingenui, sognatori. E questo mi permette di girare ancora film, qualcosa di molto impegnativo, come sto facendo ora.
A cosa sta lavorando?
A L’orto americano, una storia d’amore che diventa un thriller pieno di suspense. È tratto da un mio romanzo ambientato tra Roma, le valli di Comacchio e l’America.
È nel consiglio di amministrazione del Centro Sperimentale di Cinematografia. Come sta andando con la nuova presidenza?
Abbiamo trovato, attraverso un mio suggerimento, Sergio Castellitto che ha assunto questo incarico con grande serietà e passione. Ha una grande esperienza come attore e regista e conosce la materia. È un uomo equilibrato, quindi anche le polemiche che ci sono state riguardo alla sua appartenenza politica sono sfumate. Presidente e consiglio di amministrazione esprimono competenza. Il Centro Sperimentale è stata la scuola di cinema più importante del mondo per alcuni anni. Rimane oggi una scuola di grande livello, che forma giovani autori, che sono il futuro del nostro cinema.
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