Regista, sceneggiatore e produttore, con il suo ultimo romanzo Pupi Avati riporta il lettore in quella realtà che gli è familiare, il Nord-Est degli Anni ’50. Una storia dal sapore gotico, in cui superstizione, religione e mistero si intrecciano, in un mondo dove tutto sembra possibile.
Pupi Avati è uno dei maestri riconosciuti del cinema italiano. Regista, sceneggiatore e produttore, ha diretto quasi 50 film (tra cui alcuni capolavori come La casa dalle finestre che ridono, Regalo di Natale, Bix, Il cuore altrove, Il figlio più piccolo e il recentissimo Lei mi parla ancora, finora apparso solo su Sky) e diverse miniserie Tv. Come autore ha pubblicato l’autobiografia La grande invenzione e vari romanzi di successo, tradotti spesso da lui stesso per il grande schermo, come Il papà di Giovanna e Il signor Diavolo.
Dopo Il signor Diavolo ha scritto L’archivio del diavolo e ha già in programma un altro sequel. Perché questa infatuazione per il maligno?
Sono cresciuto per motivi bellici in campagna, dove i miei genitori erano sfollati. Io sono nato nel 1938 e quegli anni da bambino li ho trascorsi immerso nella cultura contadina, che si basa fondamentalmente sulla favola orrorifica, che fa paura, e anche sulla religiosità preconciliare, molto cupa, molto minacciosa, che prevedeva la presenza del diavolo, dell’inferno, di peccato e punizioni, ne parlava sempre. Io vengo da quel mondo. La Chiesa di oggi, invece, è una chiesa molto rassicurante, che si occupa poco degli aspetti per noi terrorizzanti, del peccato, del senso di colpa e soprattutto del diavolo. Non ci sono più omelie che ne parlano.
Allora ho ritenuto opportuno, anche per fare una comparazione, raccontare il modo di essere nel mondo dal quale io provengo, nel quale si sono formati degli archetipi e dove da bambino ho incontrato nelle chiese, prima di Sasso Marconi e poi di Bologna, quella figura che veniva evocata e citata continuamente. Mi pare sia una figura necessaria oggi, quando non si parla più né del diavolo né del male, che sono invece due realtà molto diffuse. Secondo me, il diavolo sta facendo molti più punti oggi di quanti ne facesse allora, negli Anni ’50. C’è il senso di coincidenza con il potere, come appare in quello che scrivo. Purtroppo, avendo io ormai 82 anni, conosco la vita molto bene perché ho visto a fianco a me molte persone vivere vicende fortunate e sfortunate. Ho conosciuto persone nate, vissute e morte patendo l’ingiustizia, e mai risarcite. Questo è tremendo.
Facendo un mestiere così strano, così curioso, così particolare, forse anche così inutile, ho conosciuto diverse persone che sono arrivate al grande successo, al grande potere. La gran parte di loro non sono migliorate: essere più potenti non vuol dire essere migliori. Al contrario, le persone migliori sono le più vulnerabili, le più fragili, quelle che hanno conosciuto il dolore, che sono state sconfitte. Non lo dico in modo demagogico, lo dico convinto. So che è così. Anche riguardo la qualità degli attori, i migliori non sono quelli che hanno frequentato le scuole migliori, ma sono quelli che hanno frequentato il dolore, che sono cresciuti attraverso il dolore, che è una grande scuola di vita e fa sì che il tuo prossimo si avvicini di più a te, perché sei più vulnerabile. Questi sono i motivi per cui sto portando a termine questa trilogia del diavolo.
Le indagini di Momentè sono spesso frustrate, interrotte, fuorviate dagli interventi dei potenti, burocrati e politici. Crede che oggi, rispetto agli Anni ’50 in cui si svolgono i suoi ultimi romanzi, la situazione sia più trasparente, anche grazie a internet?
Io trovo soprattutto che oggi c’è molta più violenza. La violenza è in chi nell’anonimato del web insulta, trova il modo di soddisfare la propria frustrazione aggredendo gli altri, soprattutto quelli che tentano di fare qualcosa che abbia un senso. Io mi tengo fuori dal web e credo proprio di fare bene. Questa è un’epoca di opinionisti. Le persone una volta svolgevano delle attività, costruivano sedie, armadi, pianoforti e biciclette, adesso si occupano. Non si dice più cosa fai, ma di cosa ti occupi? È una nuova professione che c’è da qualche decennio.
Quando accende la televisione lei vede sempre le stesse facce, gli stessi che tutte le sere dicono cosa pensano di tutto. Non si può sapere tutto di tutto. La bellezza delle persone è anche fermarsi, non sapere, astrarsi, cambiare idea. Invece no, se si spegne l’audio della Tv si potrebbero doppiare tranquillamente, perché sappiamo esattamente cosa dicono quelli di questa parte e quelli dell’altra.
Eppure il Paese tutte le sere è nutrito di questo alimento, che è tossico, non produce un’identità, una necessità di senso, non ti chiede di impegnarti intellettualmente ma solo di fruire, di nutrirti di questa medicina, che in realtà è un veleno. Il livello culturale del nostro Paese, quello di creatività sono bassissimi. Ho scritto questo romanzo, che è difficile, vuole esserlo. Ho avuto la fortuna di un editore che mi ha accompagnato in questa scelta. Nessuno oggi dice del proprio libro che è difficile, io ve lo dico. E vi dico leggetelo proprio perché è difficile, perché le difficoltà sono le cose importanti della vita. Il jazz non lo si ascolta più perché è una musica difficile, per cui serve un orecchio attrezzato, acculturato. È come la musica classica.
Il libro segue un montaggio narrativo molto serrato, mentre il suo ultimo film, Lei mi parla ancora, segue invece un montaggio molto disteso…
Il racconto di Lei mi parla ancora è molto sentimentale. È la vicinanza a uno stato della vita dell’essere umano che deve affrontare il problema dell’assenza. Dell’assenza di una persona che ti è stata accanto per 65 anni. Quando lessi il libro del papà di Elisabetta e Vittorio Sgarbi rimasi profondamente colpito. L’avevo vissuta, non personalmente per fortuna, ma attraverso alcuni miei colleghi, due registi amici miei che hanno entrambi perso la moglie dopo molti anni di matrimonio. Sono soprattutto gli uomini ad avere gravi problemi, perché le donne misteriosamente sanno dare la vita e insieme hanno la capacità di sopportare l’assenza. Noi uomini siamo meno attrezzati.
Leggendo il libro mi sono reso conto che valeva la pena di raccontare quel momento, raccontare la saggezza della vecchiaia. Non viene più apprezzata, mentre nelle culture classiche era molto considerata. Perché la modernità ha spazzato via i vecchi con tanta frettolosità? Perché non si chiede più un parere a un anziano, quando sa così tanto della vita? Gli errori li ha già fatti tutti, potrebbe dirti “non fare così perché ho già sbagliato io”. Questo concentrarsi del mercato tutto sui giovani, su quello che interessa ai giovani, è una grande truffa che stanno subendo i giovani, che in realtà non contano niente, sono soltanto degli acquirenti nella globalizzazione totale. Invece la persona anziana potrebbe essere interpellata e coinvolta.
Lei ha lanciato moltissimi attori che hanno fatto il cinema italiano, ma soprattutto ne ha cambiati molti facendo loro scoprire qualità che non avevano mai evidenziato, da Carlo delle Piane a Christian De Sica, a Diego Abatantuono, e oggi a Renato Pozzetto. Come fa?
Succede soprattutto con gli attori comici, che hanno questo desiderio, questa nostalgia di misurarsi con qualcosa di diverso da quello che hanno fatto per tutta la vita. Gli attori sono come le persone che hanno una cassetta degli attrezzi, i comici lì dentro hanno anche un attrezzo che non hanno mai usato, fatto di sensibilità, di spessore, di verità, di umanità, di profondità. È sufficiente metterglielo nelle mani, spiegargli come si usa e in genere funziona.
Non succede mai al contrario: l’attore drammatico non può diventare comico. Con loro faccio molta conoscenza umana, i provini mi interessano poco. Gli attori devono mettere a tua disposizione la loro parte più intima, più segreta, devono aprirsi, devono fidarsi di te. Me lo insegnò Tognazzi e non ho mai smesso di crederci. Se tu comunichi attraverso la tua fragilità, la tua debolezza, le tue paure, la comunicazione diventa profondissima, molto autentica e superi tutti i preliminari. L’attore si fida di te e si sente totalmente protetto, rassicurato, allora può veramente mettere in campo tutta la sua sensibilità.
© Riproduzione riservata